mercoledì 18 marzo 2020

Covid 19. Il lungo vissuto dell'attesa


Il tempo dell’attesa


Un viaggio si intraprende con l’intenzione di raggiungere una meta. Ma i protagonisti di un viaggio sono segnati dal percorso non dalla meta.

(‘Il designer in azienda’, F. Bianco e L Rampini, FrancoAngeli ed., 2017)


Introduzione

Il brutto dell’attesa è il non sapere quanto tempo potrà durare.

In questo periodo di forzata ‘clausura’ (marzo 2020),  in cui si è confinati in casa in attesa che ‘tutto passi’ e il corona virus si allontani, o si estingua per mancanza di persone da infettare, può accadere di vivere il senso di impotenza come contrappunto al senso di onnipotenza coltivato e alimentato convenzionalmente.

Nella nostra società si è sempre sollecitata la cura e l’espressione della forza e del coraggio nel confronto con l’esistenza e, in linea con quest’indicazione, un messaggio sociale chiaro e condiviso è stato quello di figurarsi di essere un combattente.

Questa prescrizione ha portato con sé il rischio, per chi non ce la faceva, di sentirsi un debole o vigliacco.

Al contrario, l’idea di soprassedere, di lasciar correre e di lasciar passare l’acqua che prima o poi porterà il cadavere del tuo nemico’, non è stata sempre accolta con favore al punto d’essere considerata, a volte, come un pretesto per chi aveva un comportamento pavido.

Quindi porsi in attesa su un fiume ad osservare passare l’acqua, ha da sempre rappresentato ‘solo’ un messaggio filosofico che qualche (astrusa?) dottrina indica come strada da intraprendere per una vita di saggezza. Magari la si è potuta immaginare praticabile negli anni della vecchiaia, e quindi di là da venire, in quel periodo lontano dal momento attuale e dalla foga degli anni dell’arrivismo.
Quel che resta certo è che la nostra società è una società consumistica dove ‘il tempo è danaro’ e l’attesa viene vista come incertezza, titubanza, mancanza di idee chiare e confusione di obiettivi. E coloro che indugiano generano impazienza e rischiano di essere considerati indolenti e  pigri, se gli va bene, se no sono persone che andavano corretto fin da piccoli e andavano educati a ‘… smetterla di stare sempre con la testa tra le nuvole’, ma che tanto ormai sono destinati a non saper cogliere il ‘principio di realtà’.

Il minimo che possono comportare questi pre-giudizi sono i sensi di colpa che alimentano costanti sentimenti di inadeguatezza in tante persone.

La forza dell’attesa

Non serve dire tanti se, Ma la risposta so qual è: Passar di mano ed aspettare.  Julio Iglesias, Passar di mano  #citazioni #UnaCitazioneAlGiorno #7gennaio #Aspettare #JulioIglesiasAllora forse, questo periodo di forte limitazione del movimento, che l’intero paese sta vivendo, potrebbe servire a problematizzare il tema dell'attesa e si potrebbe indirizzare l’attenzione, non solo sul senso che il periodo dell’attesa può avere per ognuno (giusto, sbagliato, noioso, insulso), ma anche sui modi che ognuno ha di trascorrere questo ‘tempo passato in attesa’.
Così forse sarebbe anche possibile che, sperimentando ritmi e spazi diversi da quelli consueti, ci si potrebbe ravvedere e recuperare questa grande dimensione che, costantemente denigrata, necessita di una legittima riparazione.

L'aspettare forzatamente (che il periodo di quarantena passi, che venga il nostro turno al supermercato, che il raffreddore si attenui) che il tempo trascorri sta già insegnando alcune pratiche cui non si era più abituati: per esempio che si può anche evitare di forzare le attività che richiedono due minuti in uno e che il tempo non solo trascorre ma, nel suo trascorrere, ha un suo reale valore.
Sta insegnando che saper aspettare significa essere in possesso di una capacità particolare e che chi indugia non è necessariamente pavido o indeciso ma che, per certi versi, saper indugiare significa avere un un talento, un’attitudine positiva piuttosto che una debolezza.
Il problema sta nel farlo con competenza così che possa rivelarsi un pregio che, allo stesso modo di una strategia di combattimento, possa essere utilizzato attivamente nell’at-tendere verso lo scopo prefisso.

L’arte dell’attesa è stata una strategia che l’uomo ha dovuto imparare a realizzare fin dai primordi della sua esistenza mentre aspettava che l’animale uscisse dalla tana, che i pesci entrassero nelle nasse, che il sole nascesse e i fiori sbocciassero, che gli orti dessero i frutti e le api raccogliessero il nettare.
Ha dovuto sviluppare quest’abilità per tutte le attività che, per essere apprese e poi svolte, richiedono tempi e metodi e che, nella pazienza e nell'apparente  tedio, alimentano la creatività. Così si è imparato ad aspettare il tempo necessario, dopo aver impastato la farina e acceso un forno, che il pane cuocia e che i biscotti non brucino. E si è anche imparato che, nelle battaglie e negli assedi di fortezze, città e castelli, bisognava saper aspettare che l’aggredito soccombesse per il lungo logorio.

Così è l’Eroe a sapere e l’artigiano, l’uomo d’armi, a conoscere segreti che fanno presagire che quando l’attesa è faticosa non dipende dal 'che cosa si sta aspettando' ma dal modo in cui l'attesa si realizza. Il contadino sa intuitivamente che l'attesa può logorare tanto l’assediato quanto l’assediante e che risparmia solo colui che sa aspettare nel modo migliore

In un contesto dove tutti aspettano qualcosa è risparmiato colui che sa creare e trovare strategie alternative di ascolto e di osservazione degli eventi, delle storie, e di ciò che sta accadendo così che la stessa attesa si rivela essere attività.

L’attesa

Un modo per mettersi in attesa senza logorarsi è suggerito dalle tradizioni sapienziali che insegnano il fatto che, per sostenere lunghi periodi di immobilità fisica, è sufficiente prestare una costante attenzione alla consapevolezza del momento presente o presenza mentale[i].
Interessante è notare che, anche negli studi sull’intelligenza svolti dalla ricerca neuropsicologica, la capacità attentiva si rivela come l’attitudine maggiormente importante per l’intelligenza. 
Particolarmente interessante sono le ricerche sull’attenzione sostenuta[ii] che, non potendo essere esercitata per lunghissimi periodi di tempo senza affaticamento, va curata e protetta. 

E' evidente che il pensiero costante ad uno scopo recluta tutto l’organismo e lo pone in uno stato di tensione che lo porta prima all’affaticamento e poi all’esaurimento, fisico e psichico. Tale tensione solitamente non è avvertita perché subliminale ma genera comunque un depauperamento energetico. 
È per questo che nella vita normale, pur essendo necessario conoscere lo scopo di ciò che si sta facendo, per evitare di esaurirsi è necessario imparare strategie di recupero energetico. Una di queste è quella di imparare a staccare il pensiero dall’obiettivo portando  l’attenzione sulle stesse procedure adottate per raggiungerlo.

Allo stesso modo del perseguimento dell’obiettivo, anche questa strategia non va però realizzata con accanimento ma rispettandone i tempi di ideazione, cosa si può fare, a sua volta, osservandone le modalità, cioè il modo in cui si arriva a prestare attenzione al modo strategico ideato per realizzare lo scopo.

Ma perché ci sia un rispetto adeguato dei tempi e ritmi, personalmente penso sia necessaria la presenza di un’altra variabile importante: la ‘spensieratezza’.

La spensieratezza non è necessariamente l’assenza di pensiero, o il volgersi del pensiero ad aspetti ludici e superficiali distaccandosi dalla realtà (mind/wandering). La spensieratezza va recuperata alla capacità di essere attenti e presenti senza obblighi né assilli e si lega alla fiducia perché solo quando si ha fiducia si può essere rilassati pur lasciandosi avvolgere e coinvolgere dagli accadimenti.

Se per l’attuazione di questi piani sono distanti e difficili gli insegnamenti sapienziali, allora si può fare riferimento a Winnicott per avere un riferimento più occidentale e capire quanto il processo dell’attenzione ‘non focalizzata’ appartiene naturalmente a tutti e ci guida fin da piccoli[iii]
Proprio osservando i giochi dei bambini si potrebbe imparare, cercando di recuperarli, quei modi di partecipare alle azioni così coinvolgenti, come quando si immergono nell’esperienza fino a dimenticare di mangiare o di tornare a casa per andare in bagno.

In queste attività ludiche sono presenti dimensioni che crescendo si diluiscono e poi spariscono. 
Per esempio la passione e la capacità di esultare sono dimensioni psicologiche che smettono di esistere con l’avanzare dell’età. Esse comprendono una partecipazione totale dell’organismo che non si stancherebbe mai di essere presente e attento se solo si riuscisse a non dimenticarle o a recuperarle.

Di fatto è nell’assorbimento con i loro giochi che i bambini imparano e i loro non sono solo voli fantastici. Sono anche viaggi in un vissuto creato in quel momento, da ognuno di loro, con caratteristiche che conferiscono a quel momento una unicità non replicabile.

È la creatività del vissuto personale che si esprime incondizionatamente.

È quell’estro di fantasia e giocosità che dona il senso del ‘piacere’ e che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
È quello che poi si continua a cercare nel corso dell’intera esistenza e che rimane solo come anelito nelle diverse attività adulte. È quella semplice capacità di gioire che si disperde man mano che si cresce e si diventa consapevoli della propria adultità.

l'attesa - foto artistiche di LunaandSam su EtsyDa questo punto di vista ‘saper attendere’ non è più solo aspettare che il tempo passi ma rappresenta anche la capacità di cogliere le occasioni di disimpegno per riprendere contatto con le proprie fantasie, con i propri giochi pindarici, con le proprie gioie e piaceri che si è sacrificati al dio del rendimento  e della prestazione.

Rappresenta l’occasione per meglio osservarsi, per guardarsi dentro e da fuori scoprire che si è soli o insieme, e che si è rimasti coinvolti, anche da grandi e pur senza desiderarlo, in giochi individuali, di coppia o di gruppo che ci possono stare stretti o  larghi. Che questi momenti e spazi si sanno e si possono comunque vivere oppure, al contrario, che fanno paura e non si è capaci di viverli perché, quando ci si accorge di essere soli, si può scoprire di non saper più vivere da soli e ci si può svuotare d’aria fino a sentirsi persi nella propria individualità.

Ci si può scoprire soli e aver paura anche di stare da soli.

Il rispetto dell’attesa

Quella di saper aspettare è una dimensione importante in ogni attività ma nell’attività psicoterapeutica lo è in maniera particolare.

Nello spazio analitico l’attesa, e il saper attendere, acquistano un valore che semplifica e delucida il senso del rispetto laddove il senso di ogni psicoterapia è dato dalla capacità di tradurre il tempo dell’attesa, del saper aspettare appunto, nella comprensione dell’individuo.

Sin dal concepimento l’organismo umano si realizza eseguendo ritmi che soddisfano bisogni intrinseci dell’individuo e di cui la persona non è consapevole.
Nel corso dell’evoluzione questi bisogni si modificano incorporando messaggi ed esigenze ambientali che trasformano l’individuo in una persona con un suo carattere, una sua forma (fisica e mentale) un suo ritmo (di apprendimento, nutritivo, respiratorio ecc.) ed una sua modalità di relazionarsi.
Quest’ultima modalità sarà quella che, cristallizzandosi, impedisce alla persona di continuare ad imparare ad imparare (questa ripetizione non è un refuso. Nota dell’autore) nel corso dell’intera esistenza. Ciò accade perché il modo in cui si apprende ad interagire nelle prime esperienze neonatali sarà quello che più facilmente, e consuetudinariamente, verrà utilizzato nelle relazioni.
L’abitudine e la consuetudine, come tutte le routine, saranno una garanzia ma anche un limite perché, pur soddisfacendo una economia generale (così facendo l’organismo si adatta ad una sopravvivenza fatta del minimo impegno e massimo rendimento) in realtà tale garanzia si concretizza solo capitalizzandosi in una economia prestazionale che l'organismo, così facendo, sostiene.

Di contro ciò comporta un irrigidimento delle modalità di apprendimento e delle modalità di relazione che, configurandosi come espressioni caratteriali, modificano anche l’attitudine di imparare ad imparare.

Ma fortunatamente, caratteriale non vuol dire immodificabile e lo sanno gli operatori della salute mentale che sono coloro che, presto o tardi, imparano a fare del saper aspettare e dell’imparare ad imparare gli strumenti principe dell’aiuto psicologico.

Capita spesso di rivolgersi alla psicoterapia per diversi motivi che, in qualche modo, possono essere ricondotti soprattutto al bisogno di allentare le maglie della capacità di apprendimento che, nel corso del tempo tendono un po’ ad irrigidirsi. Per esempio, quando ci si rende conto di non riuscire a venir fuori da pensieri assillanti, da modalità di relazione ridondanti, da schemi mentali fissi che danno sempre gli stessi risultati e ci si rende conto di aver dimenticato come si impara (ad aprire una nuova finestra nella mente e qual è il profumo dell’aria pulita e il gusto della vicinanza amicale o intima, d’amicizia o d’amore), allora si avverte, e a volte anche si coglie, il bisogno di dover imparare a guardare la realtà in modi diversi da quelli abituali e di dover anche re/imparare modi nuovi per imparare.

Da queste esperienze sorge una domanda complessa che, appartenendo all'organismo nel suo complesso, si rivela sovradeterminata rispetto a tutti gli indirizzi di psicoterapia cui spetta il compito della risposta.

Ma in realtà per rispondere a questa domanda non esistono strumenti codificati e anche gli psicoterapeuti, il più delle volte, si devono adoperare da soli ed imparare di propria iniziativa a sviluppare una nuova capacità d’osservazione che, come per i bambini, sia correlata e non distinta dall’assorbimento esperienziale gaudioso.

Negli anni dei giochi di formazione professionale gli psicoterapeuti imparano da soli ad aspettare e, mentre aspettano, ad essere orecchie ed occhi. Imparano a ri/diventare curiosi del modo in cui le persone si relazionano, di come si raccontano, di come respirano mentre fanno le cose che fanno e come, così facendo, osservano, ascoltano e annusano il tempo che passa. Re/imparano ad at/tendere che le persone trovino la fiducia nello spazio analitico, che vi si adattino a proprio modo dispiegando il loro modo di sognare la vita e costruire l’esistenza che è soggettivo, individuale e personale.

Quando anche per gli psicoterapeuti arriva il momento dell’attesa, accade un pò come per tutti ai tempi del COVID 19. Ci si accorge drammaticamente dell’improvvisa sparizione dei rituali catartici, svuotati e poi dissoltisi nel tempo delle tecnologie avanzate. Si scopre la frequente inconsapevolezza della sofferenza come dell’amore e nella vita, come in terapia, si scopre la necessità di un cambio di registro e che è necessario smetterla di affannarsi nella corsa e che è necessario fermarsi.

Rallentare, indugiare, fermarsi e respirare. 

Paradossalmente è solo nei momenti di vuoto che si impara la pienezza dell'attesa e a fornire alle proprie attitudini la perspicacia dell’indugio, dimensione in cui è possibile cogliere il rispetto del ritmo e del tempo delle modalità di passaggio. Di quei momenti soggettivamente unici di transito, da cui è puntellata la nostra crescita, e che da un momento all’altro, da una sponda all’altra e da una separazione a un approdo, danno conto di una soggettività che, avendo perso il salvagente dei riti, cerca in una relazione la riparazione per riprendere a imparare e per continuare ad essere.


Giuseppe Ciardiello


[i] Questa strategia, a volte chiamata della ‘nuda’ o ‘pura’ attenzione, consiste in una “chiara e sicura consapevolezza di ciò che realmente avviene a noi e in noi, nei successivi momenti di percezione ”. Differisce dalla nostra ordinaria modalità percettiva in quanto è distaccata e ricettiva, e permette di registrare accuratamente qualunque cosa accada nella mente e nel corpo, distinguendo attentamente le reazioni mentali ed emotive degli eventi in sé e per sé. (M. Epstein, ‘Psicoterapia senza l’Io’, Astrolabio, 2008, p. 141)
[ii] la capacità di sostenere la prontezza di risposta agli stimoli per il tempo richiesto da un compito
[iii] (Winnicott) prendendo le mosse dall’esperienza infantile, il suo discorso riesce a spiegare qualcosa che anche il buddhismo, a modo suo, sottolinea: lo stato della nuda attenzione ci è connaturato. (M. Epstein, 2008, p. 145)

sabato 7 dicembre 2019

Ma come funziona la psicoterapia?



Invito alla lettura!


Spesso le persone che chiedono una psicoterapia sono inconsapevolmente motivate più dal bisogno cognitivo, di conoscere il metodo utilizzato dal terapeuta, che dal vero desiderio di benessere.
Infatti, già in seguito ai primi incontri, il fatto di star meglio per alcune persone diventa quasi una provocazione intellettuale in cui cercare di capire ‘che cosa e come li fa star meglio’ piuttosto che essere un alimento ulteriore alla spinta di cura.
Il rischio di questo desiderio di conoscenza è che, a lungo andare, si possa camuffare di emulazione, poi di competizione e poi rischiare di diventare odio e livore perché si carica di frustrazione per non riuscire a capire cosa e come laddove non c’è niente da capire.
Sono le classiche difese intellettuali, quelle che si vestono di seduzione in ambito clinico e che ammantano di orpelli il terapeuta, oggetto e vittima dell’ammirazione, che incautamente accetta di porre rimedio agli aspetti del suo intervento apparsi incomprensibili. In tal caso, le spiegazioni saranno sempre incomplete e insoddisfacenti perché lo spirito della guarigione è sempre dentro il paziente e non nel terapeuta che potrà solo osservarla e assistervi.
Il problema dell’analisi clinica sta proprio nella difficoltà del rendere comunicabile l’operato psicoterapeutico perché, volendola dire in termini romantici, pur riuscendo a rappresentare verbalmente il metodo e l’ortodossia dell’operato, la magia dell’intervento sta sempre nella relazione. Checché se ne dica, è l’incontro tra le persone che diventa miracoloso e la ‘bacchetta magica’ della trasformazione sta nel loro rapporto.
Perciò, quando si decide di sottoporsi ad un percorso di psicoterapia, la prima cosa da decidere è se si vuole star bene o se si vuole capire come star bene. Cosa che, a pensarci bene, è un rimando alla fiducia. 

Finché si cerca di capire i modi in cui si può stare bene è inutile andare dallo psicoterapeuta; in tal caso sarebbe più utile fare un corso di counselor o di sostegno alla persona o di volontariato. Al contrario, quando e se si decide di andare da uno psicoterapeuta per stare meglio, bisognerebbe solo preoccuparsi di verificare se si verificano stati di benessere e di eventuale regressione del malessere e/o dei sintomi senza cercare di capire in che modo ha funzionato l'intervento.
detto in altre parole, quando si decide di sottoporsi ad un intervento psicoterapeutico, bisognerebbe curare l’assunzione di un unico ruolo specifico, quello del paziente, senza lasciarsi sedurre da quello di comprendere il modo di funzionare del terapeuta che attiene ad un ruolo complementare a quello del paziente. E ciò vale anche, e forse specialmente, quanto più aumenta la spinta competitiva e il desiderio di conoscere i segreti di tanta arte.
A questo proposito è necessario sapere che, in particolar modo nei processi relazionali che fondano i rapporti terapeutici, c’è sempre un binario sfocato e difficile da cogliere che un pò somiglia a quanto accade nel riposo in cui, così come il sonno allunga la vita, il sogno la illumina! ... e non si sa come avvenga.  
Giuseppe Ciardiello

mercoledì 26 giugno 2019

Amori 4.0


Amori 4.0 - Viaggio nel mondo delle relazioni’ è un volume edito da Alpes all’inizio di questo mese, giugno 2019, e curato dalle Dott.sse Amalia Prunotto, Maria Letizia Rotolo, Diana Vannini, psicoterapeute, e dalla dott.ssa Marianna Martini, psicologa, con i contributi di 38 illustri autori del mondo della psicologia, della medicina, del diritto e del giornalismo. Il libro tratta di relazioni virtuali, nuovi assetti familiari, narcisismo, dipendenza affettiva, ghosting, poliamorfia, multigenitorialità e altri strani fenomeni.

La forza di questa proposta editoriale sta nella declinazione dei diversi aspetti relazionali che vengono osservati in un viaggio multifocale attraverso il mondo degli affetti. Il libro nasce dal progetto, avviato nel gennaio 2018, inteso a mettere a fuoco le relazioni del terzo millennio ponendo sotto la lente il tema dell’amore secondo prospettive diverse e contemporanee, colorate dalla modernità.

Questo progetto vuole costruire itinerari orientativi dando forma a teorie che, attraverso l’indicazione di buone pratiche, e valorizzando le peculiarità dei diversi assetti teoretici, possano costituire una ricchezza d’insieme e rappresentare un ricco riferimento per ognuno. Il risultato per ora è questa raccolta di firme, fruibile sia da professionisti sia da chiunque si avventuri nel mondo delle nuove relazioni per le quali, piuttosto che trovare immediate risposte, è importante formulare buone domande.

Ho inoltre desiderio di annotare che la realizzazione di questo libro, effettuata a ‘più mani e più menti’, cui ho contribuito purtroppo solo con un piccolo articolo, si offre anche come raro esempio di lavoro corale di professionisti che sono emblematicamente soliti dedicarsi a lavori individuali. Laddove a volte il paradosso del lavoro analitico e terapeutico si nasconde nell’inavvertito rischio solipsistico, credo che proprio nel lavoro corale, svolto al servizio dell’associazionismo, possa rivelarsi l’antidoto capace di evitare le derive narcisistiche cui nessuno potrebbe altrimenti sottrarsi.

Giuseppe Ciardiello



martedì 19 marzo 2019

'La principessa che aveva fame d'amore', di Maria Chiara Gritti

Venerdi scorso, 15/03/2019, nella splendida cornice parmense del Palazzo Dalla Rosa Prati, la LIDAP, nelle persone di Alma Chiavarini e di Amalia Prunotto (Lega Italiana contro i Disturbi d'Ansia, d'Agorafobia e da Attacchi di Panico) si è fatta promotrice dell'iniziativa avente per oggetto la presentazione del libro “La principessa che aveva fame d’amore”.
Questa bella fiaba per adulti è opera di Maria Chiara Gritti e racconta per metafore le vicissitudini di una bambina che cerca, nei modi dettati dalla sua evoluzione, di venire a capo del suo bisogno d’amore.

Palazzo Dalla Rosa Prati - Parma
L'incontro si inserisce in un lavoro più ampio che prende il nome di "Amori 4.0" e che prevede manifestazioni analoghe in campo nazionale estendendosi nell’ulteriore progetto "Le ferite di Ercole" che prenderà in esame problematiche più prettamente maschili.
All'incontro hanno preso parte, oltre al sottoscritto, Samantha Vitale, della rete "Genitori 4.0", e  Paolo Migone, condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane.

‘Tempi duri per i troppo buoni’, recitava un detto di qualche anno fa. Oggi, la ‘love addiction’ rappresenta la condizione di generale dipendenza che le persone si trovano a vivere in condizioni di innamoramento anche degradato.
Anche la principessa protagonista del racconto vive una condizione simile.
Ereditando dai genitori l’incapacità di distinguere il guardare dal vedere le persone che le si rapportano, nel corso della sua evoluzione commette molti errori nella scelta degli uomini da amare.

Il corso del racconto si sviluppa intorno a dimensioni sensoriali e fisiche che prendono la forma di pani utili per il nutrimento di emozioni particolari.
È evidente la metafora del nutrimento che presuppone, a livello di organismo umano, l’impossibilità di vivere senza i pani delle emozioni e dei sentimenti.
A fare da contrappunto ai bisogni emozionali ci sono gli automatismi psicologici per cui, alla fame d’amore si sovrappone il bisogno di prossimità che, non potendosi avvalere di una capacità di distinguere il guardare dal vedere, si accontenta di qualunque promessa di vicinanza affettiva senza riuscire a vedere nella profondità dell’animo delle persone.
Ma la confusione degli organi sensoriali non è l’unica ad apparire. Anche le voci di dentro si accavallano determinando confusioni di mezzi e di fini. La ragazza non sa quali voci seguire e quale fame appagare scoprendo a proprie spese che la sazietà non porta necessariamente alla gratificazione come la soddisfazione dei bisogni non necessariamente appaga.

Nella vita le necessità affettive si scontrano con le possibilità d’incontro e di scambio che si possono avere con le persone che ci circondano. Possibilità a loro volta condizionate dai tempi e dagli spazi che la quotidianeità destina alle relazioni. A loro volta le relazioni spesso si affidano alle parole che, pur catalogando e facendo riferimento ai sentimenti, si rivelano essere la versione ridotta e camuffata delle emozioni. Mentre i sentimenti sono espressi dal corpo e con il corpo, al punto da potersi dire che sia il corpo ad essere vissuto da queste forme di energia, che rappresenta direttamente ciò che si vuole esprimere, le parole puntano alla comprensione dell’altro. Per cui il senso delle parole, cane, bianco, nero, vecchio, bianco ecc. dipende dalla copresenza sia del tono dell’emittente sia dall’interpretazione che il ricevente fa di quelle parole.

Le parole sono simboli e, come tali, possono essere usate sia per descrivere oggetti e situazioni, assumendo quindi funzione narrativa, sia come cose e oggetti anche capaci di ferire. Le parole possono anche diventare pietre tirate per offendere.

Solo nel corpo si può fare affidamento, nel corpo che vive, che soffre e che, quando soffre, non te lo manda a dire ma deperisce, invecchia, scalpita, si affloscia.
Allora l’intero percorso evolutivo della principessa si dispiega come una disamina corporea, come quando la principessa scopre che oltre a essere nutrito, il suo corpo necessita della vitalità dell'amore perché è l'amore il motore energetico dell'organismo e il suo vero nutrimento.
Così quest'energia, invisibile come in tutte le sue altre manifestazioni fisiche e psichiche, si rivela nei gesti, nelle azioni e nei comportamenti rappresentando l'espressione vissuta dai nostri cuori e che prende la forma del sostegno, della cura, della condivisione, dell'appoggio, dell'affidarsi, delle richieste e delle risposte, dello scambio, del dono e del piacere di condividere.

E' questo che ci rende uguali nella nostra singolare diversità.
In queste manifestazioni, sensoriali e comportamentali, si dispiega il nostro essere tutti diversamente uguali. 

... e si è tutti diversamente uguali in particolare nei giochi dell'amore dove è necessario riservare e conservare la curiosità, perché la diversità dell'altro possa esprimersi nella certezza della condivisione e accettazione acritica. Ciò riporta al presente, all'oggi, all'esserci nella presente condizione spazio temporale dove è veramente possibile esprimere curiosità, passione, gioia e amore perché le altre condizioni, quelle del passato e del futuro, sono le condizioni della manipolazione. Sono le condizioni in cui si è più frequentemente, e che rappresentano il rammarico e la speranza, che diventano attrattori mentali autonomi, e perciò svincolati dal corpo, a legarci a condizioni di desiderio e bisogno lontani dal momento presente e dal vissuto reale. questo vivere nel sogno o nella fantasia ci destina alla facile manipolazione perché in questi processi solo mentali, il bisogno e il rammarico coprono come lenti i nostri occhi che arrivano a chiudersi alla realtà relazionale e a limitarsi al solo guardare ciò che si dovrebbe anche vedere.
Giuseppe Ciardiello







mercoledì 2 gennaio 2019

Terapia Reichiana e Intersoggettività

Nel campo psicoterapeutico il tema dell'intersoggettività dovrebbe ormai aver preso piede al punto da esautorare completamente gli approcci intrapersonali.
Invece il rimando ad un mondo interno all'uomo, autonomo e indipendente dai rapporti sociali, persiste in maniera evidente sia nei vecchi modelli che nei nuovi anche se velato da riferimenti apparentemente innovativi.
Per esempio, l'idea di un'energia che, anche se biologica, è dotata di un'intelligenza che precede le interazioni oggettuali e i rapporti, implicitamente rischia di affermare che il modo in cui ogni individuo si compone, fisicamente e caratterialmente, dipende dalle sue dotazioni organiche più che dagli scambi con la realtà esterna al sé.
Ma molti autori oggi sembrano affermare il contrario!

“Le due menti creano l’intersoggettività e l’intersoggettività modella le due menti. Il centro di gravità si è spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo.
In modo simile, l’intersoggettività presente nella situazione clinica non può essere considerata solo un utile strumento terapeutico o uno dei tanti modi di relazionarsi all’altro che possiamo decidere di utilizzare o tralasciare all’occorrenza, ma deve essere vista come l’essenza stessa del processo terapeutico. Tutti gli atti fisici e mentali vanno esaminati alla luce di determinanti intersoggettive fondamentali, poiché sono radicati in questo tessuto intersoggettivo. Naruralmente, una parte del materiale clinico proviene dal repertorio ( passato e presente) del singolo individuo, ma anche in tal caso il momento in cui appare sulla scena, la sua esatta forma finale e le sfumature di significato che esso assume si modellano all’interno di una matrice intersoggettiva. (‘Il momento presente’, Daniel N. Stern, RaffaelloCortinaEditore, 2005)

Credo che ciò che Stern suggerisce sia tanto evidente che non si sente quasi mai il bisogno di ridefinirlo.
Ma forse è necessario ribadire e sottolineare che l'intersoggettività riferita ad organismi viventi e intelligenti, di qualunque intelligenza e vita si tratti, va intesa nel senso di un adattamento reciproco, dettato dalla necessità di sopravvivenza, che prende avvio fin dall'inizio dell'esistenza.
Eppure, pur constatando la veridicità di queste affermazioni, e pur considerando vero quanto si dispiega nei processi intersoggettivi che ammettono la contemporaneità dei cambiamenti sociali e strutturali biologici che compongono e circondano l’organismo, rimane nel nostro vissuto immaginario qualcosa che s’impone e spinge ancora a privilegiare un punto di vista intrapersonale.

Malgrado il sapere e il riconoscimento delle neuroscienze si continua ad essere più orientati a guardare ai dettagli piuttosto che all'insieme e quando in psicologia si guarda ai disturbi e alle patologie, gravi o leggere che siano, i meriti e i demeriti vengono ancora riferiti al singolo piuttosto che alle relazioni e a volte solo con molta difficoltà ci si convince dell'idea che possa veramente dipendere dalla relazione.

Si può rintracciare l'aspetto paradossale di questa convinzione nella paura della solitudine e della rabbia che ne consegue! La condizione di solitudine, vissuta nel corso delle esperienze esistenziali, è forse la causa che impedisce di ammettere di essere in costante interazione giacché in ogni momento di separazione e di approdo ci si scopre drammaticamente e rabbiosamente soli.
Ed è il momento presente a sottolineare questa condizione; è la consapevolezza della solitudine nei momenti più importanti della vita, nella nascita e nella morte, a renderci inveterati sostenitori dell'individualismo evolutivo.
In quei momenti ognuno sente che non c’è appello che tenga. Non c’è rete di salvataggio, non c’è giustificazione al terrore che fa rizzare i capelli e che contemporaneamente avverte dell’immodificabilità della stessa condizione di solitudine.
Forse è questa paura agghiacciante che primeggia e, imponendosi su tutto il resto, arriva a colorare di solitudine quei frangenti in cui, sempre con rabbia, si individua un'unica responsabilità: la propria.


Ciò avviene forse per una spinta impropria ad un’assimilazione errata che è quella che porta a formulare il seguente ragionamento: se si è soli di fronte alle svolte principali della vita, allora vuol dire che si è i soli responsabili del carattere assunto e delle scelte comportamentali che si mettono in atto.


Questa errata assimilazione si attua perché si è arrabbiati e distratti e, molto presi dai vissuti caricati eccessivamente dalle valenze immaginative, si presta poca attenzione alle valenze vibrazionali degli oggetti che con le vibrazioni dettate dalla loro massa, ritmo, luce, calore, movimento ecc., condizionano già abbondantemente i rapporti ancora prima che subentrino le interazioni sociali.

Pur non volendo rispolverare il concetto animistico, bisogna però affermare che se considerassimo l'energia degli oggetti di natura interazionale, parlando dell'organismo uomo sarebbe automatica la considerazione intersoggettiva che sarebbe come affermare che nella vita non si è mai soli anche se non ci ne accorge per il semplice motivo che si è riluttanti ad accettare l'idea di doversi accontentare del modo in cui l'esterno ci è reso disponibile mentre si vorrebbe essere in compagnia solo nel modo in cui noi ne abbiamo bisogno.
E' possibile sia questa ostinazione a rendere ostici nella comprensione delle modalità interattive il che potrebbe anche spiegare per quale motivo, quando si proiettano i propri bisogni, il modo in cui gli altri, qualunque altro, ci sta vicino importa poco o niente perché non corrisponde a quanto desiderato.

Queste considerazioni seguono alcune riflessioni di un po' di tempo fa che, meno organizzate, non riuscivano da sole a definire il contesto cui cercavano di dare senso. Era il tentativo di spiegare quanto una normale realtà evolutiva potesse essere traumatica. 





Si nasce e si muore soli.


Si nasce tra umori, di natura anche escrementizia, dove all’improvviso appaiono rumori e voci, luci e temperature inaspettate, contatti traumatici che s’impongono con tutta l’irruenza della realtà che, per alcuni versi e quando si ripete spesso e per lungo tempo, assume l’aspetto del trauma. La dimensione della solitudine, in cui l’esperienza è vissuta in prima e persona, ci accompagna da quel momento in poi fino all’età tarda quando si realizza che il tempo che rimane da vivere è minore di quello che si è vissuto, e ci si scopre sempre più soli. La dimensione dei sopravvissuti è una strana dimensione in cui si avverte sempre più ridotta la possibilità di comunicare il corruccio e l’ansia per il tempo che passa. Si avverte uno strano senso di irreversibilità degli eventi e l’approssimarsi, sempre più vicino e sempre più irreale, dell’ultima spiaggia, di quel momento di solitudine in assoluto che la sancisce per sempre.


Pur consapevoli dell’immodificabilità di questa condizione ci si scopre comunque grati per una mano che tiene la nostra, per un sussurro che occupa lo spazio acustico che, più o meno lentamente, si sta svuotando di senso. Si è grati come lo si è stati per l’intera esistenza quando si era tesi al riempimento dei vuoti, mai reali ma sempre veri, della vita.


Comunque sia, la dimensione della solitudine, pur rappresentandosi in particolar modo alla fine e all’inizio della vita, è presente in ogni esperienza e in ogni momento di apprendimento.


Infatti sono questi processi organismici, riconducibili a esperienze di apprendimento, e che si realizzano anche nell’inconsapevolezza di sé stessi, che ci rendono capaci d’ideare strategie di sopravvivenza soggettivamente congeniali e che, non avendo morale né etica, nel loro essere opportunistiche generano un vissuto sentimentale egoistico.


Così l’esperienza della solitudine è un’ombra che appartiene a tutti e che rende uguali pur nella diversità dei modi di viverla.


Questa condizione biologica si scontra con il vissuto dell’essere stato concepito in una relazione e dell’essere sempre vissuti nelle relazioni. Da questo contraddizione nasce il conflitto che si accompagna alla paura atavica di scoprirsi soli nella vita, invece che da soli nelle proprie esperienze, e quindi la spinta culturale di ricorrere allo psicoanalista, nel nostro tempo, come ad un santone o un confessore in altri tempi.


Insomma, la paura della solitudine e la dimestichezza o semplicità dell’aver a che fare con le emozioni di questa dimensione, può essere il motivo di una scelta di campo che ha sempre fatto bypassare l’aspetto di fondo della terapia reichiana: quello relazionale.

domenica 25 marzo 2018

Sessualità e amore: bisogni e giochi possibili



I giochi dell’amore: elaborazione dell’intervento svoltosi a Napoli il 18 marzo 2018. All’evento eravamo presenti, oltre all’organizzatrice dr.ssa Rosa Albano, il dr. Roberto Cavaliere e il sottoscritto, curatore di questo blog, dr. Giuseppe Ciardiello.

Tengo molto al tema trattato che è relativo alla violenza nelle cose d’amore.
Il punto è che, alla fine di ogni intervento di questo tipo, ho sempre l’impressione che non si sia riusciti a toccare i punti essenziali, quelli capaci di rappresentare la linea di demarcazione tra violenza, sopraffazione e amore. Allora ho bisogno di ritornare sui temi trattati cercando, con un ripensamento dell’incontro, fatto in solitudine, di rendermi più chiaro l’ambito trattato.
Lo ripropongo sul blog offrendolo come stimolo ad ulteriori diverse osservazioni così che i prossimi incontri, se ci saranno, saranno più immediatamente esplicativi delle diverse idee che si incontrano su questo tema così caldo e intenso.

L’amore



L’amore è un sentimento che nasce naturalmente da bisogni relazionali perché siamo esseri nati da un processo relazionale, in un incontro relazionale, in un momento di esplosione relazionale.

Questa natura abbaglia e confonde!

Uno dei bisogni essenziali della nostra esistenza, oltre al mangiare, bere e dormire, è il fare bene all’amore. Eppure ogni essere umano, pur consapevole di questa verità, mentre per mangiare, bere e dormire impegna la maggior parte della vita e dell’energia fisica e mentale, per fare bene l’amore si affida al caso o all’intuito o alla buona sorte o a nozioni tratte dalla pratica. Si ha  difficoltà a confidarsi, a consigliarsi, a raccontarsi la gioia di un orgasmo, il piacere di una notte d’amore.

In questi impegni essenziali per la vita si è tutti ugualmente diversi e, come i ciottoli di un fiume, ognuno conserva e agisce una diversità che lo caratterizza in tutti gli aspetti automatici, sia biologici che mentali (Gazzaniga, 2013). E' proprio questo modo di essere diversi, molto personale e soggettivo, che ci rende uguali e ciò significa che il nostro cervello organizza ed è strutturalmente organizzato da processi capaci di produrre effetti mentali in modo identico in ogni essere umano. Questo vale per tutti gli esseri! Dal mondo vegetale in poi, tutti gli esseri si differenziano per gli effetti che queste strutture, tutte uguali, riproducono.

Questa vita vissuta in automatico ci rende inconsapevolmente visibili agli altri differenziando quei tratti che rendono unici e che altrimenti, se così non fosse, confonderebbero le diverse identità uniformando l’origine culturale, familiare, di gruppo e di provenienza di ognuno.

L’uguaglianza e la diversità, o per meglio dire l’essere ugualmente diversi, è una caratteristica naturale e appartiene alla natura molto più di quanto si possa immaginare.
Si nasce uguali, tutti allo stesso modo, con lo stesso corredo genetico e con le stesse competenze maturate nell’arco della gestazione. Eppure, si è tutti ugualmente diversi come le tegole di un tetto, gli acini di un grappolo d’uva, le ciliege, le corolle delle margherite, i gusci svuotati dei ricci di mare… 

In natura tutto si somiglia e si replica diversificandosi in individui che, in quanto tali, sanciscono contemporaneamente la differenza e l’appartenenza. Si appartiene (a un gruppo, a un’istituzione, a una famiglia ecc.) in quanto uguali ma ci si riconosce perché diversi.

I neuroni specchio

Alla nascita si è composti da organi e funzioni massive che necessitano di modulazione e calibrazione relazionale. Per questo la natura ci ha forniti di sistemi capaci di produrre la comprensione delle differenze e formulare pensieri, idee e costrutti logici. Esistono neuroni, nel nostro sistema nervoso centrale, capaci di attivarsi come se fossero sollecitati da ciò che si osserva. Ciò permette di riprodurre configurazioni nervose corrispondenti a quelle che si sarebbero attivate se fossimo stati noi, in prima persona, a compiere quelle azioni. Tale configurazione è come un’eco che permette di capire lo svolgersi dell’azione (Rizzolatti, Vozza, 2008)

Ma capire lo svolgimento di un’azione non ne comporta necessariamente la comprensione. Possiamo capire che alcune persone stanno ridendo ma per provare la stessa emozione, e comprenderla nel senso di poterla spiegare e raccontare come un evento significativo, è necessario ricostruire un senso emotivo che è specifico per ogni occasione.


Da questo punto di vista è possibile che i neuroni specchio da soli rendano comprensibili i bisogni ma non i desideri che attengono a stati e livelli diversi e per la cui formazione partecipa la fantasia e l’immaginazione.




Come nell’amore e nel sesso!

E qual’è la differenza? Semplice: se si ha bisogno di nutrirsi, di riempire lo stomaco, per cui qualsiasi alimento va bene, si è in presenza di un bisogno. Se invece c’è necessità di una cena romantica, a lume di candela, si può dire che questo sia un desiderio.

Questo ci fa dire che la ‘scopata’ non appartiene all’amore… a meno che il bisogno di scopare non si è trasformato in desiderio nel crogiolo della condivisione fantasmatica di coppia.

Ma se questa fantasia è individuale e si impone nella dinamica relazionale così che la reciprocità è una finta o una forzatura, allora si è davanti ad un sopruso, al rischio di una manipolazione, di una sopraffazione, forse anche inconsapevole ma non per questo giustificabile.

Perché anche nei giochi dell’amore si è tutti ugualmente diversi e questa diversità impone la condivisione delle fantasie e la co-costruzione di storie partecipate. Fantasie costruite insieme e modulate dai reciproci bisogni e desideri.
Quando invece si realizza la fantasia di uno solo degli attori in gioco, e anche se questa fantasia si realizza con la partecipazione dell’altro che la consente, la tollera o la permette, di fatto resta un abuso perché rimane un agito di coppia dove le dimensioni psicologiche attivate restano confuse e non permettono una chiarificazione integrativa.

Non permettono il sentimento dell’amore!

Le emozioni

Tutta la natura umana procede per integrazioni e differenziazioni. Le stesse emozioni che albergano nel corpo alla nascita sono una serie di sensazioni gratificanti e afflittive. Nel corso del tempo si impara a riconoscerle e a dargli un nome così da potersi comunicare ciò che si suscita reciprocamente.

Spesso si rimane poco curiosi di queste cose accontentandosi di termini generici come quando tuttto confluisce nel termine emozione.  Mi sono emozionato vedendo un film, mi sono emozionato alla partita, mi provochi un’emozione profonda…

Tutte le emozioni possono essere nominate, hanno sempre un nome anche se è vero che possiamo viverne di talmente confuse da non poterle distinguere. A volte la coloritura è imprecisa e può avvalersi di sensi e significati diversi, come nel caso della gelosia e dell’invidia o come nel caso della rabbia e della collera, dell’odio e del rancore. Ma un nome ce l’hanno sempre.

Anche la violenza spesso non si capisce perché si è confusi nel dargli un nome.

Non si conosce la differenza tra La violenza, la passione, la sensualità, l’amore, l’amicizia, l’aggressività. Ogni espressione veemente rischia di essere interpretata come violenza così come ogni atteggiamento violento, di possesso, isolamento, sopraffazione, rischia di essere interpretato come un atto di desiderio e di passione.

Forse questo accade perché si è troppo distratti per occuparci di quello che accade nell’intimità del rapporto. Si è talmente presi dal passato e dal futuro che ogni elemento del presente, per diventare degno di attenzione, deve appartenere ai tempi del passato.

Forse, come dicono i buddisti, è veramente questa assenza al momento presente a destinarci ad una presenza fantasticata in cui si vive alla costante presenza di oggetti non reali, costruiti solo nella mente e che, manipolati adeguatamente, possono renderci vittime anche consenzienti della violenza altrui. Bisogni di riscatto del passato e desideri di riparazione del futuro vengono usati come occhiali capaci di dare un colore allettante alla vita. Solo che spesso non ci si accorge di indossarli o ci se ne dimentica perché, come lenti a contatto, sono diventati parti di noi.

Così si diventa oggetti manipolabili incapaci di vedere che la realtà è diversa dalla nostra speranza, dai nostri bisogni e desideri e ci si distrae dalla parte reale di sé perdendo il senso di appartenere a sé stessi.

Eppure è questo senso di appartenere a sé stessi che rende la vita degna di essere vissuta.
Solo che questa dimensione, come il rispetto di sé, la dignità, l’amore di sé non sono strutture o organi del nostro corpo ma sono funzioni che esistono solo quando vengono svolte, esercitate ed agite.
Quando queste funzioni non vengono esercitate semplicemente smettono di esistere… e noi con loro!

La proiezione

Quando il mondo interno diventa così attraente perché fatto di bisogni, rende anche un cattivo servizio al fenomeno della proiezione.

Tale funzione, al pari delle altre, deriva dalla biologia del nostro organismo come quando siamo in grado di proiettare alla periferia del corpo sensazioni che costruiamo a livello centrale (immaginazione e fantasie). Un semplice esempio è dato dalle persone affette da cecità che proiettano la capacità di vedere sui polpastrelli delle proprie dita o addirittura sulla punta di un bastone.

L’immaginazione e la fantasia sono funzioni che si avvalgono delle funzioni emotive. Come accennato più sopra parlando dei neuroni specchio, le emozioni contribuiscono a dare senso alle immagini e alle azioni umane che, alla luce della modulazione emozionale, diventano soggettivamente comprensibili e si possono comprendere.

Si può dire che tutti gli stimoli sono emotigeni nel senso che, quando è necessario interpretare uno stimolo come per esempio un urlo, un rumore improvviso, uno scricchiolio nel buio di una strada, di fatto lo si fa a seconda dell’emozione che si associa in automatico a quegli eventi. Perciò, se nella storia personale le urla si sono associate alla violenza, ogni volta che sentiamo un urlo è possibile che si risvegli in noi anche il timore che la violenza sollecita. E quando queste associazioni non sono comprese ci rendono facilmente manipolabili.
Perciò vivere di bisogni, e non riconoscere gli automatismi che ci contraddistinguono, rischia di falsare le relazioni e di mettere incondizionatamente in mano ad altri la nostra felicità.

Le persone abusanti sono acute e molto bravi nell’individuare fin dai primi incontri le potenziali vittime intuendo subito quali sono i bisogni essenziali di queste persone e usando la loro emotività per manipolarli (Heryigoien, 2005, Filippini, 2005).
Smettere di giustificarsi, finalmente arrabbiarsi e, riconoscendosi vittima di un sortilegio relazionale, accettare di farsi aiutare da chi non è direttamente coinvolto, sono le strategie suggerite da Herigoyen nel suo bel libro con cui mostra i modi diretti e indiretti con cui fin troppo spesso ci si lascia sopraffare.


Disambiguarsi

Si può venire fuori dall’ambiguità quando impariamo a leggere i messaggi sia verbali che quelli non verbali. Come dobbiamo imparare a distinguere le emozioni, allo stesso modo bisogna imparare a distinguere, e quindi a leggere, i messaggi che i corpi lanciano. Perché non ci sia confusione né ambiguità sia il corpo che le parole devono procedere con lo stesso ritmo, lo stesso timbro, la stessa vibrazione.
I gesti d’amore si rivelano nel sostegno, nella cura, nella condivisione, nell’appoggio, nell’affidarsi, nel chiedere, nello scambio, nella ricerca, nella proposta dei giochi, nella loro condivisione, nel rispetto delle regole, nel loro svolgersi, nel donare, nel passeggiare, nell’assumere un aspetto e un’espressione per ogni emozione…

Rispettare/si è guardarsi reciprocamente negli occhi affermando sé stessi e, riconoscendo la diversità dell’altro, essere consapevoli del fatto che: la differenza più grande tra esseri umani, quella che una volta accettata ci consente di accettare qualsiasi altra differenza umana riconoscendoci ugualmente diversi, è quella tra maschi e femmine, uomini e donne, realtà maschile e realtà femminile.

Bibliografia

S. Filippini, Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia”, FrancoAngeli, 2005.

M., Gazzaniga, “Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio”, Codice ed., 2013.

M. F. Hirigoyen, “Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro”, Saggi Mondadori, 2015.


G. Rizzolatti, L. Vozza, “Nella mente degli altri”, Zanichelli, 2008.


Giuseppe Ciardiello

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