martedì 18 ottobre 2022

Aggressività e violenza. Una vita fa, avevo quattordici anni...

 

Avevo quattordici anni quando, scoperto Reich (l’allievo di Freud che ideò la Vegetoterapia), scoprii qualcosa che sentivo vivo e chiaro nell’animo: l’aggressività che mi pervadeva non era naturale ma era la risposta a quanto accadeva fuori di me. 

Ero un adolescente insoddisfatto. Infagottato in un corpo più grande e appariscente di me, mi sentivo strano e immaturo, per non dire incapace; e questo mi frustrava. Mi rendeva insoddisfatto di qualunque cosa.

Avevo qualche abilità! Mi piaceva leggere e questo mi rendeva più analitico dei ragazzi della mia età. Mi piaceva narrare storie. A scuola, andavo bene in italiano!

Ma ero arrabbiato.

Reich spiegava, a chi lo leggeva, che la rabbia non era riconducibile a un istinto innato. 

Esisteva sì, la libido, ma questa era riconducibile a un’istanza piuttosto che a un istinto. Che nell’uomo non esisteva l’istinto, come quello degli uccelli per intenderci, per esempio le rondini che sembrano ingegneri quando costruiscono il nido, senza essere andati all’università.

Non so se avete mai visto i nidi che costruiscono gli ‘Inseparabili’. Quei pappagallini verdi che a Roma hanno invaso tutte le ville e alcuni parcheggi arredati da grandi alberi. Sono nidi in condominio, enormi, con le entrate nelle parti inferiori e laterali, forse per evitare che la pioggia li allaghi.

Quello è l’istinto; costruiscono quei nidi ‘istintivamente’. Ad un certo punto dello sviluppo si accoppiano e, scattato qualcosa che dà l’avvio, la coppia comincia a costruire il nido conoscendo a priori la tecnica, che è sempre la stessa, migliore.

Noi uomini, alla nascita, non sappiamo nemmeno camminare e per imparare ad andare in bicicletta dobbiamo aspettare diversi anni. Qualcuno l’impara mai!

La nostra abilità sta nel saper imparare. E l’apprendimento non è un istinto ma una facoltà mentale!

Le facoltà mentali, si sa, sono condizionate dalle emozioni così, se siamo frustrati, insoddisfatti, scontenti, impariamo presto o a sopportare o a reagire aggredendo o a scappare o a irrigidirci in un rifiuto mal espresso. Dipende dai campioni di comportamento da cui abbiamo potuto imparare. Dipende dai genitori, dagli amici, dagli insegnanti che appaiono nel corso della nostra esistenza. Dipende dai maestri che ci insegnano a gestire la rabbia o a costruire un buon Io.

Così qualche decina di anni fa ho incontrato il libro di Ammon Gunter: ‘La dinamica di gruppo dell’aggressività’, Astrolabio, 1970.


Quando è uscito questo libro avevo ventisette anni. Disorientato da una realtà che non regala niente, mi stavo confrontando con un Io che nuotava ancora in alto mare.

Questo dice Ammon: ‘Soltanto chi è adattato nei confronti del proprio Io, nel senso che riconosce l’identità del proprio Io ed il proprio valore, saprà anche delimitare se stesso nei confronti di un altro Io rispettando e lasciando intatta l’altra personalità in quanto diversa ed autonoma; solo una persona simile sarà libera da una attrazione simbiotica e dall’attesa e dalla richiesta inconscia che l’altro corrisponda completamente ai propri desideri e che, dal punto di vista psicoanalitico, sia una specie di estensione del proprio Io.

Un dialogo costruttivo è possibile soltanto se si riconosce e si lascia intatto l’altro e, vorrei aggiungere, soprattutto il più debole.’. (Ammon, 1970, p. 33)

Soltanto chi si sente integro (tutto intero), ben formato e non teme di perdere parti di sé, riesce a riconoscere l’altro nella sua integrità e riesce a comunicargli le informazioni di cui è in possesso senza lederlo nella sua identità e senza toccare la sua paura d’essere cambiato.

Ma io ero incerto e arrabbiato. Frustranti le mie relazioni, anche intime, si improntavano al riscatto, in risposta al bisogno di ‘avere’ si coloravano del desiderio del potere (non della potenza, direbbe qualcuno un pò polemicamente). Non lo sapevo, non me ne rendevo conto ma la mia aggressività spesso si manifestava come violenza anche nei miei desideri sessuali e non. Desideri che stentavo a riconoscere come sete d’amore e bisogno di riconoscimento.

Il libro di Ammon descrive in maniera molto più dettagliata da quanto espresso da Reich: ‘In vent’anni di esperienze ho avuto ripetutamente occasione di osservare nei miei pazienti processi distruttivi rivolti contro se stessi o contro l’ambiente. … Non sono però riuscito a trovare tracce di un istinto di distruzione o di morte innato, costituzionale. Ciò che poteva sembrare un simile istinto di distruzione, poteva trovare una spiegazione nella psicodinamica e nella storia della vita del paziente. … A mio avviso l’aggressività distruttiva va sempre intesa come una reazione alla frustrazione.’ (id., p. 11)

La repressione reprime tutte le forze, anche quelle semplicemente espressive e amorevoli. Ogni repressione è violenza ma questa chiarezza, pur colpendomi molto, non si definì in maniera incisiva. Ma credo che non avvenne neanche nei colleghi che questo libro hanno letto perché nessuno me ne ha mai parlato. O io non ho mai capito?

Come mai? Come è possibile che una dichiarazione così evidente non riceva l’importanza che riveste nemmeno in ambito reichiano dove si parla tanto di amore, sesso e energia?

È un libro emarginato forse perché mette in discussione l’ideologia dominante e il punto di vista di un personaggio dalle dimensioni di Freud?

Occorre dare un senso a questa deriva, se di deriva si tratta ancorché sociale: ‘L’esperienza mostra che l’asservimento ad una ideologia costituisce spesso l’ostacolo più difficile per la psicoterapia e che può addirittura renderla impossibile. A mio avviso la dinamica dell’ideologia è affine alla dinamica del pregiudizio. (Id., p.16).

Domanda: esiste un pregiudizio nei confronti dell’ideologia freudiana?

Difficile negarlo… I cultori della teoria reichiana si sono sempre sentiti un po’ come i fratelli piccoli di Freud. Un pò impacciati abbiamo voluto definirci Analisti forse perché la psicoterapia ci andava stretta. Diciamoli pregiudizi di contorno, come le verdure che non contano o che apparentemente non sono la sostanza. Ma comunque pregiudizi.

L’aggressività distruttiva, che per Ammon si differenzia da quella costruttiva (ad-gredi), si manifesta specialmente nei gruppi, e quindi nella società sotto forma di guerre, quando la creatività è inibita o soppressa: ‘Perché la psicoterapia, sia individuale che di gruppo, abbia successo, è molto importante che venga data al paziente la possibilità di manifestare la propria aggressività. Solo se gli è consentito di manifestare la sua aggressività, sia nel senso della distruttività che nel senso del costruttivo ad-gredi, la terapia potrà dare risultati positivi.(id., p.18). Almeno in terapia, sì, cerchiamo di essere onesti e sinceri. Siamo aggressivi quando mangiamo, quando giochiamo, quando vogliamo essere bravi, quando gareggiamo per dimostrare di sapere più degli altri. Lo siamo nelle manifestazioni d'amore e in quelle d'amicizia. 

Ma sappiamo anche distinguere la violenza?

L’aggressività distruttiva preferisco chiamarla violenza che si può esprimere nei comportamenti ma anche nelle parole, nei gesti, nel modo di guidare l’auto e nel dare gentilmente (?) la precedenza. Perciò quando la guerra s’impone in una società è probabile che anche una qualche forma di espressività creativa è stata sacrificata e che, anche nei gruppi medi o piccoli che siano, l’informazione ha smesso di rivestire la funzione per  cui è stata creata (la messa in comune del sapere). In tal caso siamo già davanti all’espressione di qualcosa di alieno perché reattivo rispetto alla nostra integralità. Quell’istanza che definiamo NOI, non si accorge dell’estraneazione e del conflitto che lo vive. Noi non ci accorgiamo di vivere in conflitto e quello che striscia sotto la pelle è un IO folle fatto solo di reazioni e pensieri che si costruiscono al di là della consapevolezza. Nello sguardo appare un Io rabbioso e carente, malato di un desiderio di potere insoddisfacibile, perché costituzionalmente vuoto, che nelle relazioni cerca solo il riscatto.

In termini psicoanalitici si può dire che nell’aggressività distruttiva l’uomo non è consapevole dei suoi motivi. L’aggressività sta sotto il dominio e il controllo dell’Io, mentre la distruttività non lo è. L’aggressività non presenta conflitti, mentre la distruttività è generata da un conflitto. Per finire vorrei presentare un modello della psicodinamica dell’aggressività distruttiva, basato sull’esperienza che ho fatto su alcune centinaia di sofferenti psichici durante gli ultimi vent’anni.

Nello sviluppo infantile di questi pazienti ho riscontrato la seguente dinamica familiare: la sessualità infantile precoce era stata respinta dai genitori, e come essa l’ad-gradi, l’esplorazione e la sperimentazione della prima infanzia. … In sintesi si può dire che l’aggressività distruttiva impedisce ed inibisce qualsiasi tentativo di autorealizzazione, di attività lavorativa e di amore. L’ad-gredi invece consente l’attività, l’amore e quindi l’autorealizzazione. (id. p.22)

In questi strani tempi di minacciosi preludi catastrofici, come molti, anch’io ho l’impressione di star vivendo l’esordio di una nuova era. Forse qualcosa sta cambiando davvero nei cuori trepidi dell'umanità.

Mi capita sempre più spesso di incontrare persone dolci, che non aspirano al potere e che mostrano una forza intima definita e decisa. Che perseguono con rettitudine principi decorosi di amicizia e donatività malgrado la disarmonia spicciola quotidiana in cui ci si sperimenta e che ci scopre preda inerme. 

Che poi, nonostante questi cambiamenti relazionali, capiti ancora che anche in questi contesti si esprimano ogni tanto lotte di potere, mi sembra normale e, senza voler rinnovare alcuna caccia alle streghe, forse dovremmo tutti imparare dal Dalai Lama e vedere in questi piccoli mostri, oltre agli strenui tentativi della società malata di asservirci, i maestri che ci mettono alla prova per fortificarci e rinsaldarci nella convinzione di stare agendo nella giusta direzione.

Perciò nei conflitti, che sorgono nelle relazioni e nei gruppi, non bisogna sprecare energie nella reazione ma cercare di comprendere cosa nella nostra comunicazione non è andata per il verso giusto.

… e correggerla!



PS: ma Ammon non è il solo ad avere scritto di istinto, aggressività e violenza. Un altro bel libro, un pò più intenso e mirato a diverse ricerche sull'aggressività, anche quelle che studiano i comportamenti aggressivi di persone intermediari di richieste altrui (coloro che sono aggressivi perché gli viene chiesto da una persona di rango gerarchico superiore), è: 'Aggressività', di Mauro Fornaro del 2004 edito da il Centro Scientifico Editore.

Solo un piccolo passo di questo libro a sostegno di quanto sostenuto da Ammon e Reich: 'Anzitutto l'istinto va distinto dal semplice impulso, o spinta, come ricorda Eibl-Eibelsfeldt, essendo questi altri "meccanismi motivanti", che spingono dall'interno dell'organismo e richiedono una qualche azione evolutiva. L'istinto appare invece un programma o modulo comportamentale a disposizione dell'individuo che, una volta innescatosi in certe condizioni scatenanti, prevede sequenze d'azione prefissate; inoltre esso è preformato, nel senso che fin dalla prima esecuzione si manifesta nella sua forma completa e definitiva (e non per aggiustamenti successivi della sequenza comportamentale); infine, generalmente, l'esecuzione è piuttosto rigida, stereotipata, piegandosi scarsamente alla variazione delle circostanze ambientali. Pertanto l'istinto, se per definizione ha le caratteristiche testé elencate, è senz'altro innato, ereditato e selezionato nella filogenesi. (p.56)

Ma veniamo alla rivalutazione umana per quanto concerne alle reazioni istintive nell'uomo.

...Pure nell'uomo esistono comportamenti istintivi, ad esempio le reazioni di paura del bambino intorno all'ottavo mese di fronte all'estraneo, l'atteggiamento di difesa già alla seconda settimana di vita, quando gli si mostra su unp scherma una macchia che, ingrandendosi, dà l'illusione di un oggetto che gli viene addosso.

La questione appropriata nel caso dell'uomo è, secondo noi, se si può includere nella definizione di istinto l'esecuzione dei tipi di comportamento aggressivo di cui sopra: la caccia e comunque l'uccisione di animali a fini alimentari; i conflitti per il territorio, per l'accaparramento di beni (cause prime di lotte tra singoli, tra gruppi e di guerre tra umani); le contese per l'accoppiamento sessuale, le contese per la gerarchia nel gruppo (carriera, posizione di comando, di leadership nella società) ecc. Che ci siano spinte e motivazioni nella direzione di questi tipi di comportamento, non c'è dubbio; che la loro esecuzione sia in toto dettata da programmi filogenetici, preformati e rigidi, quali sono gli istinti, è assai improbabile. Tanto grande infatti è il peso dell'apprendimento e della cultura nell'esecuzione di questi tipi di comportamento, tanto grande poi è la variabilità nelle modalità esecutive individuali e di gruppo. inoltre le circostanze innescanti non paiono così cogenti come nel caso dei comportamenti analoghi nelle specie animali. (p. 57)

Quindi, in sintesi:

In questo senso non c'è un istinto aggressivo, perché "non esiste una regola di condotta universale nel comportamento competitivo e predatorio" (Wilson, 1975: Sociobiologia. La nuova sintesi., Zanichelli, 1979). Piuttosto, a seconda delle circostanze e delle convenienze, si attua l'uno piuttosto che l'altro programma comportamentale. E in varie occasioni può essere più utile , all'individuo o al suo gruppo, rinunciare all'aggressione, o al contrario esercitarla nelle forme più aberranti. (p. 60)


Giuseppe Ciardiello

giovedì 30 giugno 2022

Psicoterapia o Analisi rileggendo 'Introduzione alla Psicoterapia Sensomotoria'

 


Psicoterapia e analisi

 

Il fatto che la Vegetoterapia sia derivata dalla psicoanalisi non giustifica l’utilizzo moderno del termine ‘Analisi Reichiana’ quando vogliamo fare riferimento ad essa. Quello che il termine aggettivato, Analisi Reichiana, sembra intendere è differente dall’uso terapeutico della Vegetaterapia che, per conservare le sue caratteristiche originali di tecnica terapeutica, necessita di riferimenti epistemici differenti da quelli cui si ricorre in applicazione analitica. A meno che non si voglia intendere qualcosa di diverso che allora andrebbe esplicitato.

Spesso ho cercato di trovare le parole per esprimere il rammarico per la perdita di valore terapeutico dell’Analisi Reichiana quando esclude dal suo repertorio le conoscenze che potrebbero derivarle dall'indagine delle strutture mentali. Purtroppo non sono mai riuscito a trovare il nesso con quanto sentivo di stare vivendo che era sempre più orientato all'individuazione nel corpo delle stretegie mentali.

Oggi voglio provare a rendere pubblico questa opinione avvalendomi di alcune pagine di uno scrittore che purtroppo ha concluso la sua vita troppo presto. Nel suo breve tempo ha però trovato l'estro di efficaci parole per raccontare gli intenti del lavoro cui si fa normalmente riferimento quando si parla di terapia psichica (psicoterapia). Il lavoro psicoterapeutico è quello per cui molti, come me, si laureano in psicologia clinica. Sperano di imparare ad usare la relazione, il rapporto e il contatto per provocare un cambiamento nel modo di comprendere e agire il comportamento delle persone, senza usare necessariamente strumenti chimici, biologi o mentali.

Nell'analisi, si dice, lo scopo non è il cambiamento. Questo, seppur si verifica, accade solo incidentalmente e non riguarda pertanto le preoccupazioni dell'Analista. Ciò su cui si lavora è l'aspetto esistenziale, quasi filosofico della vita, trovando motivazioni epistemiche nel modo di intendere la vita, la propria malinconia, a volte il disamore o, pecca valida per qualunque tema problematico, il non 'saper amare'.

In terapia il cambiamento del comportamento, condizionato dagli stati mentali, è qualcosa che appartiene alla regola e alla norma dell’esistenza umana per cui, nelle relazioni, bisogna ritenere che l’essere umano, fin dal suo concepimento, impara e disimpara a comportarsi privilegiando quei comportamenti, mentali e corporei, più vantaggiosi nell’economia della sopravvivenza.

Il lavoro psicoterapeutico corporeo si pone allora strategicamente sulla linea dei cambiamenti comportamentali e relazionali, con l’intento deliberato di cogliere quelle strategie mentali disfunzionali al comportamento attuale. Solo che le strategie comportamentali agite col corpo sono elaborate dalla mente per cui, il lavoro richiesto ad uno psicoterapeuta è quello di esplicitare sia i comportamenti evidenziati nell'agito sia le strategie mentali adottate dalla mente/cervello così da poterle contenere e modificare.

Ciò richiede anche amore e passione perché l’avventura relazionale è di per sé coinvolgente e quando la si usa professionalmente, ci si ritrova a camminare in bilico sulla lama di un coltello tra la professione e la vita privata e pubblica, tra l’etica professionale e il rispetto per le persone..

Ciò richiede anche una costante presenza mentale. Richiede la conoscenza del funzionamento cerebrale sia da un punto di vista biologico, con le sue molecole e connessioni nervose, sia mentale con i suoi processi, credenze, fedi, superstizioni ecc. Tale approccio richiede la conoscenza di tecniche derivanti da epistemi corrispondenti.

L’introduzione di termini ‘analitici’, che derivano più o meno esplicitamente dalla psicoanalisi classica che, per intenderci, fa riferimento al primissimo Reich quando ancora si pregiava di appartenere alla corrente freudiana, nell’impianto vegetoterapico non è mai servito a rafforzare strumentalmente la tecnica. Anzi si può dire che le manovre cosiddette analitiche, quando vengono agite nel modello vegetoterapico, assumono un aspetto malamente imitativo mancando di solito un training specifico adeguato.

Per questo credo che, quando è necessario insistere nella definizione aggettivale dell’analisi, come sembra aver deciso anche la Bioenergetica che si autodefinisce ‘Analitica’, l’analisi cui si fa riferimento deve essere intesa diversamente dalla psicoanalisi dinamica originariamente riferita a Freud. Ma se così stanno le cose allora andrebbe specificato e ben delineato il senso dell'approccio analitico inteso nel senso corporeo.

Nella narrazione che Giannantonio fa nel suo libro postumo della tecnica sensomotoria da lui utilizzata, ‘Introduzione alla psicoterapia sensomotoria’ edito dalla Alpes nel 2020, , credo si possa individuare sia il senso degli interventi psicoterapeutici sia un esempio circa i processi mentali cui risalire sia le eventuali modalità da adottare per individuare utili suggerimenti relativi agli epistemi e le ricerche da usare per restare fedeli allo spirito psicoterapeutico schiettamente corporeo.

Credo inoltre che questo orientamento sarebbe coerentemente impostato a quanto lo stesso Reich oggi privilegerebbe.

Giuseppe Ciardiello







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