mercoledì 5 marzo 2014

Un curioso, paradossale ed (in) evitabile equivoco di Marcello Mannella



Un curioso, paradossale ed (in)evitabile equivoco
di Marcello Mannella
                                                                               
“Donde le cose hanno nascimento, ivi si dissolvono secondo la necessità.
Pagano infatti la pena e scontano, reciprocamente, la colpa commessa,
secondo l’ordine del tempo.”       
Anassimandro

Un tema interpretativo che attraversa da tempo sottotraccia l’opera di Reich riscuotendo una certa fortuna, è quello che, fondandosi su una particolare lettura di alcuni momenti della sua riflessione, fa di lui un (inconsapevole) ricercatore spirituale, tanto che la sua opera è a volte accostata alle grandi tradizioni sapienziali di tutti i tempi.
 Si sostiene infatti che egli, avendo rifiutato la concezione riduzionista del reale, essendo andato oltre un sentire e una rappresentazione egoica dell’esistenza, avendo affermato la realtà di un oceano di energia cosmica primordiale che tutto connetterebbe, avrebbe sostenuto con forza la necessità per il genere umano di riscoprire, dopo essersene allontanato e pertanto smarrito, la sua costitutiva dimensione esistenziale sovrapersonale.
Occorre dire che questa posizione interpretativa è accompagnata da un’altra, speculare, che facendo centro intorno alla ricerca fisica e medica orgonomica di Reich, sostiene, invece, una considerazione della sua opera radicalmente scientifica e naturalistica. Pur se spesso contrastanti, entrambe le posizioni interpretative condividono la convinzione dell’efficacia e del carattere innovativo della dimensione propriamente clinico-terapeutica (l’analisi del carattere e la vegetoterapia) della riflessione reichiana. Ritengono però che la sua importanza sia tale soprattutto alla luce della considerazione – già presente nello stesso Reich - che rappresenti un momento di passaggio e di preparazione verso altre e risolutive esperienze. Entrambe le posizioni interpretative sostengono infatti, ancora, la convinzione, in parte condivisibile anche se spesso proposta con eccessiva enfasi, che l’attuale condizione dell’umanità rappresenti un momento di transizione verso un’ulteriore e decisiva tappa della sua evoluzione coscienziale.
Coloro che hanno privilegiato la ricerca orgonomica sono generalmente sostenitori di una forma di utopismo di stampo positivistico che trova espressione nel tentativo di individuare le poche e fondamentali leggi dell’energia orgonica affinché, attraverso la loro conoscenza e applicazione in ogni ambito,  possano realizzarsi le condizioni per un vivere sociale finalmente sano e armonico, terrestremente felice; quanti  privilegiano e leggono l’opera di Reich attraverso la considerazione che rappresenti per molti aspetti un’esperienza di ricerca spirituale credono invece di poter cogliere in essa i presupposti e le anticipazioni per la realizzazione di un nuovo stadio evolutivo, non più biologico ma coscienziale, il solo capace di portare l’umanità oltre il caos e la violenza che hanno caratterizzato la sua storia a causa delle inconsapevolezze legate ad una rappresentazione frammentaria della realtà.
La ragione della coesistenza di queste due diverse e contrastanti direzioni di pensiero trova, a mio avviso, spiegazione in un’altra particolarità della riflessione reichiana. Parallelamente, infatti, ad una chiara ispirazione olistica di fondo, la sua opera presenta la sopravvivenza di una mentalità e di un linguaggio decisamente meccanicisti e scientisti. Si viene così a determinare un effetto di stridente contrasto fra l’ispirazione olistica del suo pensiero, per la quale i diversi aspetti della realtà sono ricondotti ad un processo di funzionamento comune e il suo atteggiamento e linguaggio meccanicisti e scientisti portati a ricondurre la complessità di ogni esperienza ai suoi aspetti quantitativi e meccanici.
 Ma torniamo a portare l’attenzione al tema centrale della nostra discussione, quello che fa di Reich un ricercatore spirituale. Sia chiaro, non voglio sostenere che nella sua riflessione siano assolutamente assenti accenti e tematiche di tipo spirituale, quanto piuttosto sottolinearne i caratteri del tutto particolari che finiscono per configurarla come una vera e propria metafisica panteistico-materialista, collocandola, per tanti aspetti, agli antipodi di ogni autentica esperienza spirituale.
 Quanti leggono la sua opera attraverso la considerazione che essa rappresenti un’esperienza di ricerca spirituale fanno riferimento all’affermazione dell’esistenza di un oceano di energia orgonica cosmica, spesso accostata al concetto e alla realtà del  ki della tradizione cinese, e alla logica olistica del pensiero funzionale. Ma soprattutto interpretano, in maniera del tutto particolare, una figura centrale  della sua riflessione, quella di potenza orgastica. Essi considerano l’esperienza dell’orgasmo come un’esperienza in cui, nell’acme del piacere sessuale, caduta ogni forma di controllo mentale, ci si abbandona al flusso delle sensazioni di piacere che sorgono spontaneamente e, in un profondo vissuto fusionale con l’amante, si perviene alla realizzazione di un’esperienza di coscienza allargata capace di farci cogliere il carattere unitario della realtà. L’esperienza del piacere orgastico rappresenterebbe, pertanto, a loro parere, la cifra del carattere sovrapersonale e spirituale dell’opera di Reich, mentre l’affermazione della realtà dell’uomo genitale -  una sorta  di uomo risvegliato - costituirebbe l’auspicio dell’avvento di un nuovo tipo antropologico, di un’umanità finalmente in grado di attuare una modalità esistenziale funzionale, cioè in grado di vivere in profonda sintonia con la natura dentro e fuori di sé.
 E’ proprio qui che essi, a mio parere, cadono in un paradossale equivoco interpretativo. Cerchiamo di chiarirne le ragioni. Concettualmente definito nel periodo psicoanalitico quando Reich si confrontava con Freud circa il problema dell’eziologia delle nevrosi, tale concetto ha finito con l’assumere progressivamente significati che esulano dalla consueta considerazione dell’esperienza sessuale. Il concetto di potenza orgastica si è venuto infatti a costituire come espressione dello stesso processo della vita[1], il filo rosso capace di connettere tutta la vita vivente, per essere considerato infine espressione di una funzione naturale ancora più originaria e cosmica, quella della superimposizione[2] che connetterebbe invece, a parere di Reich, la natura nella sua totalità, vivente e non vivente.
 E’ ne La funzione dell’orgasmo (1927) che Reich aveva esposto la sua concezione dell’esperienza del piacere sessuale. Con il concetto di potenza orgastica, egli aveva inteso la capacità di abbandonarsi, all’acme del piacere sessuale, “senza alcuna inibizione, al flusso dell’energia biologica, la capacità di scaricare l’eccitazione sessuale accumulata, attraverso contrazioni piacevoli involontarie del corpo.”[3] La distanza che separava Reich dai suoi colleghi psicoanalisti era ormai enorme: con il concetto di orgasmo egli intendeva qualcosa di qualitativamente nuovo e diverso, che comprendeva ma non si risolveva nella potenza erettiva e in quella eiaculativa. L’esperienza del piacere poteva scaturire esclusivamente dalla profonda sintonia degli amanti, si alimentava del loro abbraccio tenero e sensuale, del profondo desiderio reciproco.
 Ciò che risulta però sorprendente nella descrizione reichiana dell’esperienza del piacere sessuale è il fatto che egli, dopo aver significativamente portato l’attenzione alla qualità della relazione fra gli amanti, sposti progressivamente l’accento sugli aspetti fisiologici del processo, considerandoli basilari. A suo parere occorreva bandire ogni fantasia, purificare la sessualità da ogni miscuglio di eccitazione non genitale, occorreva, a suo dire, cristallizzarla. Gli amanti, allora, piuttosto che vivere il loro incontro nel segno dell’arte erotica e impegnarsi nel gioco di alimentare il proprio e altrui piacere, dovevano rivolgere la loro attenzione al flusso delle propriocezioni. Essi vivono pertanto insieme l’esperienza del piacere fino alle soglie dell’acme, dopo di che la relazione lascia il posto alla convulsione orgastica in cui si diventa un frammento di natura pulsante, dimentichi di sé e dell’altro: “In due organismi viventi l’orgasmo è un evento  che accade e non qualcosa che bisogna ‘raggiungere’. E’ come l’improvvisa protusione di protoplasma di un’ameba in movimento;”[4] “L’orgasmo non è un fatto psichico, ma al contrario un fenomeno che si verifica esclusivamente con la riduzione di tutta l’attività psichica alla funzione vegetativa primordiale;”[5]“Nell’orgasmo non siamo altro che una massa di protoplasma che si contrae;”[6] “Il vivente nell’orgasmo, non è altro che una parte della natura pulsante.”[7]  “Ciò che intendo è l’esperienza psichica, l’esperienza psichica primaria dell’unione di due organismi […] E’ l’esperienza della perdita del nostro ego, del nostro intero mondo spirituale.”[8]
Al contrario, dunque, delle esperienze sapienziali che hanno individuato nella sessualità una via per portare gli uomini ad un più alto stato di coscienza e far vivere loro, attraverso l’esperienza del superamento del proprio io fenomenico, la consapevolezza del carattere e dell’unità spirituale di tutta l’esistenza, per Reich invece nell’estasi orgastica accade la riduzione dell’umana esistenza ad un frammento pulsante ed indifferenziato di energia cosmica primordiale. Delle funzioni superiori, spirituali, dell’uomo non ne è più nulla, la sua esistenza è ricondotta ad uno stato, se fosse realmente possibile, addirittura prebiologico, prevegetativo.
 Ora, occorre dire che se è sicuramente fondamentale nell’esperienza sessuale la capacità di abbandono alle sensazioni di piacere senza esercitare alcuna funzione di controllo, è altrettanto vero che non è plausibile, né auspicabile, che si possa vivere un’esperienza di piacere così come egli la descrive. In Reich l’esperienza del piacere non ha più niente di psichico, di umano, ma accade quando ogni forma di coscienza si silenzia  nel pulsare meramente energetico del corpo, e si riafferma, annullato il principio di individuazione, uno stato dell’essere antecedente ogni differenziazione e quindi di unità e armonia. La descrizione dell’esperienza dell’orgasmo è emblematica del suo sentire olistico che lo porta a vagheggiare l’anelito fusionale con la natura primigenia e la sessualità, pertanto, si carica oltremodo di significati filosofico-metafisici.
 La visione reichiana dell’orgasmo risente, a mio avviso, delle suggestioni della filosofia panteistico-naturalistica di Giordano Bruno.[9] Il filosofo è il cantore della natura nella sua infinita potenza creativa. La sua filosofia è un coraggioso ripensamento della tradizione filosofico-religiosa neoplatonica: le ipostasi divine dell’Uno, dell’Intelletto e dell’Anima del mondo, piuttosto che disporsi in un ordine gerarchico nella graduale perdita di essere, di luce e di perfezione, fino alla zona d’ombra rappresentata dalla materia, sono fuse insieme nella suprema realtà della natura, che come Uno-Universo ricomprende in sé ogni opposizione e distinzione. Dio, per Bruno, è l’universale animazione della natura, è lo spirito universale che interno alla natura stessa, specifica la materia in un’infinità  di forme. Ma pur amando la natura in tutti i suoi aspetti, il fine del suo filosofare è l’immedesimazione con la sua infinita potenza creativa. Il filosofo è allora colui che animato da passione va alla sua ricerca e brama di divenire tutt’uno con essa. E’ ne Gli eroici furori, con il mito di Atteone, che Bruno esemplifica mirabilmente l’immedesimazione con la natura naturante. Il mito narra del cacciatore Atteone che andando a caccia in luoghi inconsueti sorprende Diana, simbolo della natura, della sua creatività, intenta a fare il bagno. Per la sua colpa sarà trasformato in cervo e i suoi cani lo sbraneranno. Fuor di metafora, il mito vuol significare che il filosofo nel suo appassionato amore per la natura, compresane la verità, annulla la realtà apparente del principio di individuazione, divenendo tutt’uno con essa, identificandosi con la sua creatività primigenia.
 Come non vedere allora nella concezione dell’orgasmo di Reich la trascrizione in termini materialistici della vicenda dell’appassionato amore di Atteone, del suo ardente anelito fusionale con Diana? La visione della natura di Reich ha spiccati caratteri panteistico-materialistici - piuttosto che vitalistici come quella di Bruno - e insieme una forte connotazione in senso finalistico e olistico. Il finalismo che anima la sua concezione della natura è innanzitutto chiaramente palesato nella sua considerazione del processo della conoscenza umana che, in una sorta di trasposizione naturalistica dell’hegeliana Fenomenologia dello spirito, sottende il movimento dell’energia orgonica a pervenire alla coscienza di sé. Così come nella filosofia di Hegel, nella figura fenomenologica della coscienza infelice, lo spirito, attraverso le vicissitudini della coscienza finita umana, interpreta il suo dolore come conseguenza della sua scissione dalla coscienza infinita divina e anela pertanto a ricongiungervisi superando ogni frattura; così, nel pensiero di Reich, nell’esperienza della conoscenza umana l’energia orgonica imprigionata nella finitudine della corporeità anela a pervenire alla comprensione del suo carattere universale.
In Superimposizione cosmica Reich afferma che “sussiste e prorompe in noi una sete di conoscenza più forte di qualsiasi pensiero filosofico, sia esso vita-positivo o vita-negativo. Questa divorante ansia di conoscere può essere sentita come anelito che si propaga fuori dei sensi per andare oltre la struttura materiale del corpo e ci consente di capire che cosa vi è di razionale nella visione metafisica dell’esistenza. […] La sete di conoscere esprime i tentativi disperati, a volte, da parte dell’energia orgonica entro l’organismo vivente, a comprendere se stessa, a divenire consapevole di sé. E nel comprendere i propri modi e i propri mezzi di essere, essa impara a capire l’oceano di energia orgonica cosmica che circonda il prorompere e l’indagare delle emozioni.”[10] In quest’ottica profondamente finalistica, al processo della conoscenza si affianca l’esperienza del processo sessuale.
 Sempre in Superimposizione cosmica, delineando uno scenario cosmologico, Reich sostiene che le diverse particelle di energia orgonica massa-esente nel loro movimento spiraleggiante si fondono dando origine alla materia inerte. Ma una volta imprigionata, l’energia orgonica tende a fuoriuscire, a erompere dal sacco, per ricongiungersi nuovamente all’oceano di energia orgonica cosmica. L’amplesso genitale assolve, a suo parere, a questa funzione; ed è qui che il parossismo finalistico di Reich raggiunge il culmine. Egli sostiene, infatti, che gli stessi genitali umani avrebbero assunto la loro configurazione non in quanto forma atta a portare il seme maschile all’interno del corpo femminile, ma perché solo così sarebbe stato possibile realizzare la funzione della superimposizione. Sarebbe pertanto l’anelito dell’energia orgonica a ritornare all’oceano di energia orgonica cosmica a determinare la configurazione dei genitali, lo struggimento amoroso e la forma eterosessuale della sessualità.
Per comprendere, allora, la funzione del riflesso dell’orgasmo[11] occorre, a suo parere, andare al di là delle interpretazioni materialistiche e finalistiche che la riconducono all’espulsione del seme e considerarla piuttosto dal punto di vista bioenergetico-funzionale: “L’orgone, concentrato nel genitale e tendente in avanti, non riesce a fuoriuscire dalla membrana. V’è una SOLA possibilità di sgorgare nella direzione desiderata: mediante il congiungimento con un secondo organismo […] Vediamo che nella superimposizione degli orgonomi e nella compenetrazione dei genitali, l’estremità sollecitata e perciò ‘insoddisfatta’ può far defluire le proprie onde d’eccitazione orgonotica nella loro naturale direzione.”[12] “I movimenti somatici pre-orgastici ed in particolare i guizzi orgastici rappresentano gli estremi tentativi dell’orgone massa-esente dei due organismi, di congiungersi insieme, di COMPENETRARSI. […] Lo struggimento orgastico che tiene un ruolo tanto importante nella vita animale si palesa dunque come espressione di questo ‘tendere elevandosi fuori di se stessi’, come ‘anelito’ ad uscire dalla stretta sacca del proprio organismo. Forse qui si trova la soluzione dell’enigma per cui, tanto spesso, l’immagine della morte rappresenta l’orgasmo. Anche nella morte l’energia biologica fuoriesce dai confini del materiale sacco fisico che la tiene imprigionata. L’irrazionale concetto religioso circa la ‘morte liberatrice’, l’aldilà ‘di redenzione’ acquista in tal modo fondamento reale. La funzione che, nell’organismo naturalmente funzionante viene assolta nella superimposizione sessuale, nell’organismo corazzato ricompare sotto forma di principio concettuale del nirvana oppure dell’idea mistica di redenzione. L’organismo religioso, corazzato, lo esprime direttamente: vorrebbe ‘liberare la sua anima dalla carne’. L’‘anima’ rappresenta l’eccitazione orgonotica; la ‘carne’, i tessuti che la circoscrivono.”[13]
Reich ci propone, dunque, la lettura, nei termini delle dinamiche dell’energia orgonica, dell’esperienza sessuale umana e insieme di quei motivi religiosi che enfatizzano l’importanza della dimensione trascendente dell’anima  mentre giudicano negativamente la dimensione sensibile della sua esistenza. Non sembra, però, rendersi conto che potrebbe valere anche il reciproco e leggere, pertanto, lo scenario fisico-cosmologico da lui delineato, l’ipotesi della tendenza alla superimposizione dell’energia orgonica e l’anelito a ripristinare la sua condizione originaria, come la sopravvivenza dell’antico motivo religioso orfico-pitagorico del viaggio che l’anima, caduta nella prigione del corpo e spinta dalla nostalgia per la sua patria celeste, deve intraprendere per purificarsi e liberarsi delle suggestioni della dimensione sensibile del vivere. A tal proposito sono assai significative le affermazioni in cui si sostiene che “tutte le funzioni del vivente […] hanno origine dal contrasto primigenio fra l’orgonome materiale e quello energetico”[14], o in cui si afferma che “il vivente ebbe origine dalla natura non vivente, quale particolare degenerazione.”[15]
Sono qui chiaramente riproposti in forma particolare il motivo del contrasto fra lo spirito e la carne e il tema della natura sensibile come caduta o degenerazione della realtà spirituale. E’ sorprendente constatare che il Reich della maturità sia pervenuto a negare alcuni fondamentali presupposti della sua  riflessione. Ricordiamo che un tema dominante il suo pensiero fin dagli inizi è quello dell’identità funzionale di mente e corpo. Il giovane Reich aveva profondamente sentito il tema nietzschiano del superamento del tradimento del corpo e della terra e come Nietzsche aveva provato a ricongiungere cielo e terra[16]. Ora quel dissidio e quel dualismo sembrano essere riaffermati.
 Ancora: il giovane psicoanalista Reich aveva duramente polemizzato con Freud circa la supposta esistenza dell’istinto di morte. Il motivo del loro contendere ruotava intorno alla natura del male e del dolore: essi erano connaturati all’umana esistenza o piuttosto  da considerarsi il frutto della sua inconsapevolezza?  Il Reich maturo sembra, in qualche modo, dare ragione al suo antico maestro. Infatti se è vero che  in Freud il male ha origine nella realtà biologica della pulsione di morte, mentre in Reich  assume i contorni di un male metafisico, come conseguenza della perdita dell’originario stato di armonia della pulsazione orgonica cosmica a seguito della comparsa della materia inerte che imprigiona l’orgonome energetico; per entrambi comunque il male è una potenza che sovrasta l’umana esistenza. 
Dato tutto ciò appare  palese che interpretare la sua opera alla luce di supposti significati di ricerca spirituale è equivocare profondamente il senso della sua riflessione. Nella sua architettura di pensiero, e in maniera decisamente accentuata nella sua riflessione matura, dell’uomo, delle sue funzioni superiori, della sua costitutiva libertà di incamminarsi in un impervio e personale percorso di ricerca dei possibili significati sovrarazionali e sovrapersonali dell’esistenza, non vi è più traccia. Nella sua visione panteistico-materialista dell’esistenza non si tratta di realizzare una nuova condizione coscienziale-esistenziale dell’umanità, quanto piuttosto di rivolgersi al passato, di ripristinare una condizione dell’essere primigenia, antecedente il turbamento provocato dalla caduta dell’energia orgonica (dell’anima) nella stretta sacca dell’organismo (del corpo) che così la imprigiona. 
Legato alla visione illuminista di una natura stabile, definita ed armoniosa, Reich disconosce ogni possibilità di evoluzione e nega all’uomo  ogni senso e funzione, annullandone la specificità ontologica. L’unica funzione che sembra disposto a riconoscergli è paradossale e negativa: quella di operare per superare la caduta e riparare la colpa del principio di individuazione, di porre, cioè, fine al turbamento che la vita manifesta e l’individualità umana –  la cui condizione proprio per questo non può che essere contrassegnata dal dolore -  hanno provocato all’unità indifferenziata e perciò armoniosa della natura primigenia.




[1] “La funzione dell’orgasmo rientra dunque nel novero del quadriritmo: tensione-carica-scarica-distensione. Abbreviando: ‘funzione t-c’. Gli studi fatti ci hanno confermato che la funzione t-c non è peculiare soltanto dell’orgasmo. [   ] Ma anche la divisione della cellula obbedisce a questo quadriritmo, non meno del movimento dei protozoi e dei metazoi di ogni specie. [   ] La formula dell’orgasmo diventa la formula della vita.” W. Reich, La biopatia del cancro, Sugarco, p. 31.
[2] Il concetto di superimposizione non è chiaramente definito da Reich. Esso sembra indicare sia la dinamica delle particelle di energia orgonica massa-esente che nel loro muoversi vorticoso si incontrano, si attraggono e si fondono (si superimpongono) dando origine alla materia inerte, sia assumere la  significazione finalistica della tendenza dell’energia orgonica imprigionata nell’involucro materiale a fuoriuscire attraverso l’amplesso sessuale dalla stretta sacca che la contiene al fine di ricongiungersi con l’oceano di energia orgonica cosmica primordiale. Si veda W.Reich, Superimposizione cosmica, Sugarco, 1975. 
[3] W. Reich, La funzione dell’orgasmo, Sugarco,1985, p. 116.
[4] W. Reich, L’assassinio di Cristo, Sugarco, 1994, p. 53.
[5] W.Reich, La funzione dell’orgasmo, op. cit., p. 145.
[6] Ibidem, p. 349.
[7] W. Reich, Analisi del carattere, Sugarco, 1994, p. 479.
[8] W. Reich, Reich parla di Freud, Sugarco, 1952, p. 41.
[9] Reich conobbe e amò particolarmente la filosofia di Bruno. A Bruno dedicò un capitolo dell’Assassinio di Cristo.
[10] W. Reich, Superimposizione cosmica, op. cit., p. 147.
[11] Nel riflesso dell’orgasmo “l’organismo […] ‘si abbandona’ completamente alle sue sensazioni organiche e alle pulsazioni somatiche involontarie del corpo”. W. Reich, Analisi del carattere, op. cit., p. 448.
[12] W. Reich, Superimposizione cosmica, op. cit., p. 78.
[13] Ibidem, pp. 79/80.
[14] Ibidem, p. 81.
[15] Ibidem.
[16] Si veda M. Mannella, rivista

sabato 1 marzo 2014

Nietzsche - Reich: influenza e differenze di Marcello Mannella



Nietzsche – Reich: influenza e differenze
Marcello Mannella


Un’influenza, a mio avviso determinante, nell’opera di Reich che non è mai stata colta dalla letteratura critica è rappresentata dalla riflessione filosofica di Nietzsche. Un motivo di accostamento, anche se esteriore e indiretto, è rappresentato dalle loro vite maledette, sofferte, ai margini della cultura accademica e del mondo. Quella di Reich, uomo di grande energia e volontà, espressione di una struttura di personalità caratterizzata dalla dominanza di tratti caratteriali coatto-fallici, che lo portarono a vivere la sua vita nel continuo conflitto, con Freud e la Società Psicoanalitica Internazionale, con i leaders del Partito Comunista, con l’autorità giudiziaria statunitense. La sua infanzia e l’adolescenza furono sofferte a causa della relazione fortemente contrastata con un padre burbero, violento e autoritario e segnate dal dramma del suicidio prima della madre, a causa della gelosia del padre, e poi del padre stesso per i terribili sensi di colpa. Il giovane Reich ebbe parte in causa nel  dramma familiare per aver rivelato al padre la relazione della madre con uno dei suoi precettori. Reich aveva allora 17 anni e sullo sfondo si stagliava la tragedia della prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto, trasferitosi a Vienna, si iscrisse alla facoltà di medicina. I compagni di università, per la sua intelligenza brillante e carismatica, lo odiavano o lo amavano; d’altra parte, non era possibile entrare in rapporto di amicizia con lui se non se ne condividevano le convinzioni politiche, sociali e intellettuali; tale aspetto della sua personalità lo accompagnerà per tutta la vita.
Si inserì presto e giovanissimo nella Società Psicoanalitica Viennese; particolarmente apprezzato da Freud che lo considerava come un figlio prediletto, divenne uno dei pochi intimi del maestro ed aveva libero accesso a casa sua. Ma nonostante una relazione che sarebbe durata circa 15 anni, Reich entrò ben presto in contrasto con Freud e la psicoanalisi per i dissidi teorici  sorti intorno alla questione della pulsione di morte e dell’eziologia delle nevrosi, proponendo però di fatto uno schema relazionale con le figure che incarnavano l’autorità che si sarebbe sempre ripetuto nella sua vita. Espulso dal Partito Comunista Tedesco nel 1933 e dalla Società Psicoanalitica Internazionale nel 1934, incominciò a peregrinare in numerosi paesi d’Europa, sempre accompagnato da polemiche e conflitti, che finivano immancabilmente con  l’espulsione. Un periodo di relativa tranquillità lo vive ad Oslo dal ‘35 al ‘39. Ma anche questa stagione di calma ebbe presto termine; fece appena in tempo a trasferirsi negli Stati Uniti d’America, pochi mesi prima che si affermasse la barbarie nazista in Europa. L’ingresso  in quel paese registra il suo progressivo isolamento sociale e culturale e vede Reich sempre più assorto nello sviluppo di un sapere assolutamente estraneo ai consueti parametri del mondo accademico e scientifico: quello intorno ai caratteri e alle leggi dell’energia orgonica, al cui studio dedicò tutte le sue forze e risorse economiche. Gli ultimi anni della sua vita furono progressivamente accompagnati dai crescenti attacchi persecutori delle società medica, psicoanalitica e psichiatrica  americane  che determinarono l’emergere di quegli aspetti paranoici  che pure erano latenti da tempo nella sua personalità. La sua vita si concluse drammaticamente con la morte in carcere in seguito ad una condanna per aver contravvenuto all’ingiunzione della magistratura che gli proibiva la vendita degli orac[1], cioè degli accumulatori di energia orgonica, un’energia che a suo parere era a fondamento dell’esistenza, e che costituivano uno degli strumenti terapeutici propri della  cosiddetta fase orgonomica della sua riflessione e pratica terapeutica.
Quella di Nietzsche, invece, fu la vita di un uomo labile, delicato, disadattato, espressione di una struttura di personalità caratterizzata da una sensibilità e da atmosfere proprie dei vissuti intrauterini. Genio precoce – all’età di 24 anni insegnava filologia classica all’Università di Basilea – ed incompreso – affermava di essere nato postumo – ruppe ogni rapporto con la cultura accademica. Dopo appena dieci anni dovette abbandonare l’insegnamento universitario per gravi problemi di salute e da allora, con il sostegno di una piccola pensione riconosciutagli magnanimamente dalla stessa università,  visse ramingo e in solitudine, alla ricerca di luoghi e condizioni climatiche in grado di alleviare le sue terribili sofferenze, sempre animato dalla speranza continuamente frustrata ma mai sopita, che la sua opera fosse un giorno riconosciuta e che gli procurasse finalmente quella moltitudine di seguaci a cui in fondo aveva sempre aspirato. Solo quando era ormai avvolto nel buio della follia, i suoi libri incominciarono ad acquistare notorietà mondiale e, a tutt’oggi, egli è probabilmente il filosofo più tradotto e letto nel mondo. La notorietà della opera si accompagnò a pericolosi fraintendimenti dai quali non furono aliene le beghe nazionaliste e razziste della sorella Elisabeth che, divenutane curatrice, la manipolò fino al punto di fare del suo pensiero l’araldo dell’aberrante ideologia nazista.  Solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso la sua filosofia è stata riabilitata ed è oggi unanimemente riconosciuta come fondamento non solo della filosofia ma dell’intera cultura del ‘900.
 E’ curioso considerare che il filosofo che sosteneva di essere dinamite e di filosofare a colpi di martello, che si era proclamato l’anticristo e che aveva annunciato l’avvento del superuomo, non avesse per niente il fisic du rol. Era timido, riservato, solitario. La miopia lo accompagnò fin da ragazzo e lo condusse, in breve tempo, a una semi cecità. Per strada non riconosceva le persone se non da vicino; “per scrivere inforcava un doppio paio di occhiali e usava una visiera verde per proteggere gli occhi dalla luce. Il suo habitat era la penombra.”[2] Ma non era solo la miopia a sfinirlo, perché egli soffriva di un male  ancora più misterioso e acuto: il mal di testa. Non aveva che  pochi minuti di autonomia al giorno per leggere e scrivere qualcosa. Nei giorni peggiori, gli spasmi lo costringevano a tenere l’occhio destro semichiuso per molte ore, gli attacchi di mal di testa e di vomito ininterrotto duravano anche 4, 5, 6 giorni. Dato tutto ciò non è affatto incredibile che colui che è considerato uno dei più grandi psicologi di tutti i tempi, precursore della psicoanalisi, avesse una personalità labile, portato facilmente alla commozione e al pianto e che nel pianto avesse concluso la sua vita cosciente abbracciando a Torino un cavallo maltrattato dal suo padrone e chiamandolo maestà.
E’ nell’atteggiamento esistenziale di fondo e sul piano dei contenuti che possiamo cogliere la profonda influenza di Nietzsche su Reich. Reich conobbe  la sua filosofia; in apertura dello scritto Il Peer Gynt di Ibsen. Conflitti libidici e fantasie deliranti, che costituiva la relazione per l’ammissione, appena ventiduenne, alla Società Psicoanalitica di Vienna, troviamo una citazione tratta dal Così parlò Zarathustra. Secondo la testimonianza della sua seconda moglie Ilse Hollendorff,[3] Reich considerava il Così parlò Zarathustra fra i dieci libri che avrebbe desiderato portare sempre con sé. In Etere, Dio e Diavolo, Reich esprime nei suoi riguardi un debito di riconoscenza, annoverandolo fra i precursori del suo pensiero funzionale. Un’opera reichiana che risente dello stile di Nietzsche (forse non proprio il migliore del linguaggio letterariamente raffinato del filosofo, quello di un Nietzsche esasperato per il suo isolamento intellettuale e pertanto aspro e aggressivo) è Ascolta piccolo uomo, scritto da un Reich sempre più anch’egli esacerbato per i continui attacchi che la sua opera e la sua persona subiscono con un ritmo sempre più incalzante. Nietzsche è il filosofo che denuncia la più grande menzogna, quella millenaria di Dio, che ha comportato il tradimento del corpo e della terra. Egli è il filosofo che denuncia le distorsioni della cultura occidentale che, con il trionfo della ratio a partire da Socrate e Platone, e cioè dell’attitudine razionalista rispetto alla vita che ne mortifica la pienezza e l’immediatezza, prepara l’avvento di un’epoca, quella del nichilismo, giunto ormai nel nostro tempo al suo compimento. L’epoca del nichilismo, un’epoca contrassegnata dalla povertà spirituale e dalla svalutazione di ogni valore, è in pari tempo caratterizzata dall’affermazione di un particolare tipo antropologico che, spaventato dalla potente e piena vibrazione della vita, si ammanta delle virtù dell’umiltà e dell’altruismo, assume la maschera dell’uomo morale e del santo e si rinchiude in un orizzonte esistenzialmente limitato. Non potrà comunque evitare di cadere preda dello spirito del risentimento, di quell’atmosfera emozionale, cioè,  caratterizzata dall’invidia e dall’odio distruttivo verso ogni espressione di vita spontanea e potente.
Nella Genealogia della morale Nietzsche esercitando l’arte psicologica del sospetto, mostra l’origine umana, ahi troppo umana, dei supposti valori morali e spirituali, che piuttosto dunque che essere espressione della capacità di elevazione spirituale dell’uomo, scaturiscono dai sui bisogni, immediati e concreti, di rassicurazione e protezione  dagli aspetti angoscianti dell’esistenza, o piuttosto sono espressione della sua sete di dominio e di potere. Il filosofo ripercorre, attraverso un’ipotesi storico-metaforica, la genesi e il trionfo dell’uomo morale. Egli narra pertanto di un tempo, in età classica, in cui dominava la casta dei guerrieri che improntava la vita ai valori della forza, della fierezza, della sessualità, del corpo. La sua equazione di valore era pertanto:buono uguale forte, bello, uguale caro agli dei. Era questa propriamente la morale dei signori, la morale del si convinto e potente alla vita. Ma a fianco ad essa nel tempo si delinea un’altra equazione di valore, quella degli schiavi, quella cioè di coloro che avendo privilegiato lo spirito di contro al corpo, invidiosi della sovrabbondanza di vita dei signori, ne rovesciano reattivamente i valori. Ora buono è ciò che è umile, casto, ciò che comporta la rinuncia di sé e della vita. Ma, sostiene Nietzsche, la negazione degli istinti del corpo non significa per ciò stesso la loro scomparsa, ma piuttosto il loro pervertimento. Ecco pertanto che l’uomo morale, l’uomo che ha negato la potenza dionisiaca della vita, diviene un essere psichicamente malato, un autotormentato, che non potendo esprimere liberamente i suoi impulsi, li rivolge all’interno o li manifesta all’esterno in forma distruttiva e deformata. L’uomo morale non può fare a meno di esprimere l’odio che nasce dalla sua impotenza esistenziale e psicologica, l’odio, cioè, dei deboli verso i forti, verso coloro che osano vivere potentemente e creativamente la vita. Nietzsche è il filosofo che nutre la speranza dell’avvento di un’oltreumanità che, nell’entusiastica accettazione della volontà di potenza quale sua essenza, è  capace di affermare  e vivere la vita nella sua interezza. Come non cogliere, allora, le suggestioni della filosofia di Nietzsche nell’opera di Reich! Il tema nietzscheano del tradimento della terra e del corpo è il tema reichiano dell’allontanamento dell’uomo dalla sua condizione originaria naturale che, a causa della paura di vivere, della costitutiva paura del nostro fragile io di perdere i propri confini nell’esperienza intensa del piacere che nasce dalla percezione delle proprie correnti vitali, determina la nascita del carattere, inteso quest’ultimo, come una gabbia volta a bloccare il flusso spontaneo e naturale del vivere. La comparsa della corazza caratteriale e muscolare comporta il pervertimento del nucleo biologico di funzionamento naturale dell’uomo, il suo essere cioè orientato positivamente alla socialità, alla collaborazione, all’amore e alla conoscenza, e determina il sorgere di emozioni secondarie e distruttive. Lo spirito del risentimento nietzscheano trova allora il suo corrispettivo nel concetto reichiano di peste emozionale, in quell’atteggiamento proprio dell’uomo corazzato  portato ad uccidere e mortificare la vita dovunque si manifesti spontaneamente e pienamente. La speranza nietzscheana dell’avvento dell’oltreuomo è, infine, la speranza reichiana che, almeno per i bambini del futuro, possano darsi condizioni di vita tali da permettere la strutturazione di una carattere non corazzato, quello genitale, che improntato alla potenza orgastica li renda capaci di fluire all’unisono con la vibrazione cosmica orgonica.
Come può vedersi, gli impianti di fondo della riflessione di Nietzsche e Reich sembrano sovrapporsi nelle loro linee generali di lettura della condizione dell’esistenza umana. Ma ora, fra i tanti motivi che li avvicinano, proviamo a mettere in risalto quello che più degli altri li accomuna e costituisce il centro della loro riflessione: il tema della accettazione della vita e della rivalutazione del corpo.
In un passo del Così parlò Zarathustra - Dei dispregiatori del corpo - leggiamo:
Ai dispregiatori del corpo voglio dire una parola. Essi non
 devono, secondo me, imparare o insegnare ricominciando
daccapo, bensì devono dire addio al proprio corpo
 – e così ammutolire.
“Corpo io sono e anima” – così parla il fanciullo. E perché
non si dovrebbe parlare come i fanciulli?
Ma il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e
per tutto, e null’altro, e anima non è altro che una parola
per indicare qualcosa del corpo.
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso,
una guerra e una pace, un gregge e un pastore.
Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione,
fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un
giocattolo della tua grande ragione.
‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa
ancora più grande, cui tu non vuoi credere, - il tuo corpo
e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’.
 Ciò che il senso sente e lo spirito conosce, non ha mai dentro
 di sé la propria fine. Ma il senso e lo spirito vorrebbero
convincerti che loro sono la fine di tutte le cose: talmente
vanitosi sono essi.
Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito: ma dietro
di loro sta ancora il Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei
sensi, ascolta anche con gli occhi dello spirito.
Sempre il Sé ascolta e cerca: esso compara costringe, conquista,
distrugge. Esso domina ed è il signore anche dell’io.
Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, un possente
sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel
tuo corpo, è il tuo corpo. […][4]
In Nietzsche, dunque, il corpo non appare più confinato nella realtà della res extensa cartesiana, ma diventa il luogo della vita e della conoscenza. L’uomo non è realtà spirituale, res cogitans, scissa dal corpo; è essere corporeo in tutto per tutto, anche nelle attività spirituali. Perciò l’idea dell’esistenza di un puro mentale, di una mente separata dal corpo, è uno dei più grandi errori della storia della cultura occidentale che il filosofo si propone di destituire di valore. Reich non può che essere d’accordo con tale visione e considerazione dell’uomo. Egli fu tra i primi psicoanalisti ad affermare l’identità funzionale di corpo e mente e con lui avviene l’ingresso del corpo nella psicoanalisi.
Per comprendere come Reich sia pervenuto a definire la sua tecnica terapeutica occorre considerare le condizioni di crisi in cui versava la terapia psicoanalitica negli anni ’20 del secolo scorso. Reich avvertì in maniera acuta tale crisi e condivise con altre grandi personalità, come Rank e Ferenczi, l’esigenza di battere nuove strade, di andare oltre la cura parlata per un metodo terapeutico più efficace. Un momento decisivo del suo itinerario di ricerca è rappresentato dalla scoperta dell’ancoraggio delle strutture caratteriali in equivalenti strutture muscolari, di quel concetto di identità funzionale fra mente e corpo che avrebbe comportato importanti modificazioni nella pratica terapeutica con la definizione della tecnica che va sotto il nome di Vegetoterapia Analitico-Caratteriale. Reich cominciò  a proporre ai pazienti l’assunzione di posture e movimenti mirati, simili per quanto possibile ai nostri comportamenti primari, volti a far rivivere emotivamente i momenti decisivi della loro storia infantile. In questo modo era possibile prendere coscienza ed elaborare i propri tratti caratteriali, cioè i segni incisi che costituiscono il precipitato dei nostri vissuti relazionali primari nelle varie fasi dello sviluppo evolutivo e che nel loro insieme definiscono la specifica forma di una determinata struttura di personalità. Il rivivere i vissuti cristallizzati nel nostro corpo permetteva di sperimentare e definire nuove modalità comportamentali e di modificare pertanto le proiezioni cerebrali di quegli stessi vissuti attraverso un continuo rimando di informazioni fra la periferia del corpo e la struttura celebrale.
Fin qui, dunque, abbiamo considerato l’influenza di Nietzsche su Reich e i molteplici motivi condivisi. Reputo che questa breve disamina non sarebbe però completa se non volgessimo  l’attenzione anche a quei motivi di differenza che ritengo posseggano un’importante valenza ai fini della nostro discorso riguardo al corpo. Un motivo di differenza è innanzitutto rappresentato dalle loro diverse considerazioni intorno alla sua natura. Reich è legato alla concezione illuministica di una natura umana biologicamente stabile e definita fin dal suo sorgere, armoniosa e meravigliosamente semplice così com’era semplice e immutabile la natura dell’universo descritta da Newton.  Egli riprende e accentua il modello energetico-pulsionale della mente proprio della psicoanalisi classica e considera l’essere dell’uomo come corredato positivamente da un nucleo naturale di funzionamento. Da questi presupposti concettuali deriva inevitabilmente che ogni distorsione, ogni disarmonia e dissonanza comportamentale, ogni malattia, non possono che essere conseguenza dell’interferenza sociale; ecco perché egli è pervenuto ad un considerazione pressoché esclusivamente negativa del carattere e perché il suo progetto terapeutico sia rivolto quasi esclusivamente a togliere, sciogliere, abbattere, liberare; non c’è null’altro da fare, nulla da aggiungere, ma solo ristabilire la compiutezza e la perfezione del dato naturale. Condizionato dalla sua visione antropologica naturalistica, convinto che le emozioni non abbiano bisogno di essere educate e modellate in quanto posseggono una forma e una direzionalità armoniosa e naturale, Reich non riesce ad avvertire la necessità precipuamente umana di impegnarsi nella costruzione del proprio ordine interiore. Il compito dell’uomo, la sua responsabilità è, per così dire, solo negativa: lasciare svolgere e accadere ciò che è dato per natura.  In Bambini del futuro sostiene che compito basilare dell’educazione è quello di rimuovere gli ostacoli che si presentano alla loro produttività naturale innata[5].
La visione di Nietzsche è radicalmente diversa. Agli occhi del filosofo la vita si rivela priva di ordine; il mondo non ha uno scopo, anzi danza sui piedi del caso, tutto è caos, molteplicità, divenire senza meta, caso e necessità insieme. In un mondo siffatto la stessa interiorità umana non presenta i caratteri dell’unità e della coerenza, ma risulta animata da un continuo  flusso e riflusso di impulsi in perenne contrasto fra loro. Ma la vita per il filosofo è, soprattutto, nella sua più intima essenza volontà di potenza, intesa come capacità continua di generare dal caos e dal disordine forme sempre nuove di ordine e di senso; essa è un’opera d’arte che genera se stessa. Qui Nietzsche anticipa temi e motivi propri del pensiero sistemico e complesso, come la teoria delle strutture dissipative di Prigogine[6] e il concetto di autopoiesi di Maturana e Varela[7].  E’ nell’oltreuomo che la volontà di potenza, l’essenza creatrice della vita, trova la sua espressione  più alta. Nello scritto Della vittoria su se stessi, nel Così parlò Zarathustra, Nietzsche afferma che bisogna esercitare la propria volontà di potenza, cioè la volontà di superare se stessi attraverso il movimento di governare, trasformare, educare i propri impulsi ed emozioni. Non si tratta di negarli, di rimuoverli, ma di impiegarli; un uomo privo di forti impulsi, a suo parere infatti, non sarebbe in grado di creare nulla di importante e di bello. L’esercizio della volontà di potenza, è propriamente parlando, il segno distintivo dell’oltreuomo, di colui che fa della sua vita un’opera d’arte, una creazione estetica e che proprio per questo perviene alla definizione di una propria tavola dei valori. Per Nietzsche, dunque, la verità dell’uomo, la sua armonia, il suo ordine e la sua misura, non sono un dato naturale che occorre svelare e proteggere, ma piuttosto un punto d’arrivo, mai stabile e definitivo; una costruzione che scaturisce dall’impegno verso se stessi e l’esistenza a cui ogni uomo è chiamato lungo l’intero corso della propria vita. Nietzsche è un esponente di una posizione filosofica, il cosiddetto pensiero debole, che riconosce e accetta la relatività, la molteplicità e la storicità, delle nostre affermazioni. Nel Crepuscolo degli idoli, il filosofo afferma che morto Dio, la verità, il fondamento stabile e sovrasensibile del mondo, il mondo stesso viene a configurarsi come favola, racconto, libero gioco e confronto delle interpretazioni. Il valore e la verità pertanto non sono più considerate proprietà delle cose, ma è l’uomo a creare e porre valore alle cose. Non per caso egli si chiama uomo, cioè colui che valuta. 
Reich, al contrario, si colloca nel solco del cosiddetto pensiero forte, di quella posizione di pensiero  che considera la verità come qualcosa di stabile ed esterna all’uomo, che l’uomo deve impegnarsi a trovare. Certo, la verità di cui egli parla non è quella di un principio spirituale o metafisico, ma della realtà della natura, che concepita però come un ordine stabile e definito, con proprie poche leggi e regolarità, assume caratteri sostanziali. Reich finisce così, inavvertitamente, per proporci una nuova metafisica della natura. La storia della riflessione e pratica terapeutica psicoanalitica era cominciata sotto il segno del pensiero forte. Fin dalle sue origini, fin dagli Studi sull’isteria di Breuer e Freud, il fine dell’indagine psicoanalitica era quello di individuare la verità dei traumi infantili responsabili della formazione delle affezioni nevrotiche. L’attività psicoanalitica era simile a quella dell’archeologo che scava sempre più in profondità fino a portare alla luce le vestigia del passato. La psicoanalisi, fuor di metafora, doveva scoprire le verità dolorose dell’infanzia e nel riportarle alla coscienza provocare la loro catarsi. Col passare del tempo, Freud maturò nuove convinzioni. In un piccolo saggio intitolato Costruzioni nell’analisi, piuttosto che parlare di ricostruzione della vera storia dell’infanzia del paziente, egli considerava l’analisi come un lavoro di costruzione del passato. Non bisognava più preoccuparsi di portare alla luce i supposti accadimenti reali, quanto piuttosto di aiutare il paziente a costruire la verità della sua storia attraverso la creazione di nuovi e consapevoli nessi fra i frammenti del suo passato  La verità era allora costruita dall’analisi e nasceva dal gioco delle interpretazioni che accadeva nel dialogo fra l’analista e l’analizzato, e in quanto tale era espressione di una posizione debole di pensiero.
 Anche il modello teorico post-reichiano della SIAR si colloca  nel solco della tradizione del pensiero debole. Il setting analitico è considerato come un sistema complesso, come una forma vivente che nasce dall’incontro fra i tratti caratteriali dell’analista e i tratti caratteriali dell’analizzato. Un analista non è uno specchio neutro ma è implicato profondamente nella relazione. Sarà proprio la sua capacità di entrare in contatto a consentire il sorgere di quell’alleanza terapeutica fondamentale perché si dia la possibilità di uno sviluppo coevolutivo. L’interazione fra i diversi transfert e controtransfert consentendo una maggiore vitalità del paziente, determinerà importanti mutamenti nella sua struttura di carattere. In altre parole, l’interazione con l’analista consente al paziente una più ampia capacità di oscillazione e di sperimentare nuove e diverse possibilità di espressione di sé e di relazionarsi diversamente al mondo. Anche per la SIAR, dunque, la verità che accade nel setting non è una verità svelata ma una verità costruita, la creazione autopoietica del paziente.


[1] W. Reich, Biopatia del cancro, Sugarco.
[2] M. Fini, Nietzsche – L’apolide dell’esistenza, Marsilio, pp. 20/1
[3] I. Ollendorff, Wilhelm Reich. Biografia da vicino, La Salamandra
[4] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, p. 33
[5] W. Reich, Bambini del futuro, Sugarco.
[6] I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza, Einaudi
[7] H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti

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