sabato 1 marzo 2014

La violenza di genere come conseguenza del binarismo di genere



La violenza di genere come conseguenza del binarismo di genere

Marcello mannella



I fatti di cronaca raccontano pressoché quotidianamente delle violenze e delle sofferenze, spesso delle morti e dei suicidi, di donne e di quanti – gay, lesbiche, transgender, intersessuali – vivono ed esprimono diversamente la propria identità di genere. In famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro, in ogni ambito sociale, queste dimensioni del vivere non riguardano innanzitutto la sfera privata della persona, ma hanno un’immediata valenza sociale, stimolano atteggiamenti emozionali spesso irrazionali, risposte cariche di significati politici.
 Per comprendere fino in fondo la natura di questo fenomeno è necessario sgombrare fin da subito lo spazio di discussione dai convincimenti propri del senso comune che quanto di doloroso accade sia conseguenza della persistenza di radicati pregiudizi e distorsioni culturali che irrompono accidentalmente e dall’esterno nello spazio altrimenti regolato delle relazioni di genere. Occorre piuttosto considerare, alla luce dell’indagine storica, che la realtà del genere in occidente è sempre stata un fenomeno eminentemente politico, espressione di pratiche discorsive[2] che esprimono particolari rapporti di potere e che finiscono col configurare in termini di sopraffazione i rapporti fra gli individui.
Innanzitutto, desterà meraviglia scoprire che la convinzione, per noi scontata, che l’umanità si componga di uomini e  di donne, è una convinzione culturale recente. Nel mondo antico, greco e latino, in età medioevale e moderna, fino a circa metà del ‘700, ha dominato, infatti, un discorso di genere che si è organizzato intorno al paradigma del corpo monosessuale maschile.
 Come racconta Laqueur nel suo affascinante L’identità sessuale in occidente dai greci a Freud[3], il corpo femminile non era considerato di specie diversa, ma rappresentava la versione rovesciata e imperfetta di quello maschile. Nei manuali di medicina, anatomia, ginecologia, la vagina e l’utero erano rappresentati come il pene e lo scroto rovesciati, rivolti verso l’interno. Per Aristotele, il maggiore scienziato dell’antichità, non esistevano funzioni fisiologiche specificamente femminili. Le mestruazioni accadevano per espellere l’eccedenza delle sostanze nutritive causata dal freddo del corpo femminile e avevano l’equivalente maschile nelle scariche emorroidali e nelle emorragie nasali. Era addirittura possibile rintracciare nel corpo maschile la funzione della lattazione: dopo la pubertà, mungendoli sistematicamente anche gli uomini possono produrre un po’ di latte.
 Il filosofo differenziava il genere maschile da quello femminile non in riferimento alle caratteristiche anatomiche, ma in base alle loro differenze spirituali. I maschi incarnavano il principio attivo spirituale, le femmine il principio della passività materiale. La donna era un uomo mancato (come si può vedere Aristotele aveva anticipato Freud) in quanto il freddo del suo corpo, come conseguenza della sua imperfezione spirituale, non permetteva al sangue mestruale di trasformarsi in sperma. Era la forza spirituale dello sperma maschile a risvegliare nel processo del concepimento la materia femminile e a permettere che il sangue mestruale si trasformasse nel nutrimento necessario allo sviluppo dell’embrione umano.
 Ed era proprio la presunta superiorità spirituale a giustificare il predominio sociale dell’uomo: solo ad egli, in quanto capace di autodominio e di misura, toccavano i ruoli di attività di governo, mentre la donna ne era esclusa a causa della sua costitutiva imperfezione che comportava il prevalere del disordine istintuale e, pertanto, l’impossibilità di ogni assunzione di responsabilità sociale.
 La dominanza del paradigma del corpo monosessuale maschile è testimoniata dai testi scientifici. Non esistevano termini specifici per gli organi del corpo femminile: le ovaie erano indicate con il nome di testicoli; fino al ‘700 mancava un termine tecnico per indicare la vagina e non si aveva nessuna rappresentazione dello scheletro femminile.
 Ciò che più stupisce è che questa ignoranza del corpo femminile non può essere imputata ad una forma di sapere puramente speculativa, ma nasceva invece da una pratica scientifica empirica. La dissezione dei cadaveri era sicuramente praticata in età ellenistica, così come in età moderna; eppure per gli anatomisti il corpo era esclusivamente maschile. Tutto ciò, a parere, di Laqueur, testimonia che “la storia della rappresentazione delle differenze anatomiche tra uomo e donna  è dunque straordinariamente indipendente dalle strutture effettive di questi organi, e anche da ciò che di essi si sapeva. Era l’ideologia e non la precisione delle osservazioni, a determinare in qual modo venivano visti, e quali differenze contavano e quali no.”[4]
 E’ interessante a tal proposito sottolineare che quando nel 1559 Realdo Colombo individuò l’esistenza della clitoride e la considerò come la sede del piacere femminile, ciò non suscitò lo scalpore che avrebbe dovuto far sorgere. Tale scoperta, infatti, si presentava con la forza di una decisiva anomalia rispetto al paradigma del corpo monosessuale maschile che indicava nella vagina l’equivalente rovesciato del pene. Significativamente la questione fu sottaciuta; il corpo femminile che aveva provato a testimoniare la propria esistenza fu nuovamente rimosso.
 Queste vicende sono indicative del modo di procedere dell’attività scientifica ed evidenziano che il contesto della scoperta risente del più generale contesto culturale e politico. Ancora più sorprendente è il fatto che, improvvisamente, intorno alla metà del ‘700, si affermi un nuovo paradigma del corpo umano improntato ora ad un radicale dimorfismo. Accadde, insomma, in quel periodo, ciò che Kuhn ha definito una rottura rivoluzionaria[5] e si assiste, pertanto, all’emergere di una nuova organizzazione gestaltica della percezione. Pur guardando nella stessa direzione, gli scienziati vedono qualcosa di completamente diverso: dove prima percepivano identità ora vedono differenze.
 Il modello del corpo monosessuale viene pertanto abbandonato e al suo posto subentra quello del corpo bisessuale caratterizzato da un radicale dimorfismo. L’anatomia e la fisiologia maschile e femminile cominciarono ad essere rappresentate come assolutamente opposte. Nel nuovo modello non erano più le differenze spirituali a determinare la diversa posizione sociale per uomini e donne, ma l’inevitabile conseguenza della diversità dei corpi. Gli uomini, per attitudine naturale, erano dinamici, attivi, rivolti a competere e imporsi nel mondo sociale; le donne, invece, erano naturalmente passive, anatomicamente predisposte alla cura della prole, alla funzione di sostegno, al governo delle faccende domestiche.
E se nel modello del corpo monosessuale l’uomo era capace di auto dominio e misura, ora il suo naturale dinamismo comportava una prorompente sessualità, mentre la donna era descritta come innocente e angelicata. Pertanto se ancora nel ‘600 le ostetriche erano prodighe di consigli  alle donne per raggiungere il piacere e favorire così il concepimento, fra il ‘700 e l’ ‘800 questa convinzione fu lasciata cadere. Nel nuovo paradigma la donna diventava un essere apassionale e l’orgasmo era considerato una prerogativa esclusivamente maschile.
Stupisce ancora, come sottolinea Laqueur, che l’affermazione del nuovo paradigma accada nonostante proprio in quel tempo si verificasse l’importante scoperta scientifica dei foglietti embrionali che affermava la differenziazione dei sessi da un embrione morfologicamente androgino e che sembrava pertanto confermare l’antico modello del corpo monosessuale.
Da questa breve disamina storica si evincono due importanti considerazioni: la prima è che la realtà del genere non può pretendere nessuna naturalità come conseguenza della stabilità biologica del corpo; la seconda è che ogni discorso di genere, almeno in occidente, ha sempre comportato una diseguale distribuzione del potere.
 Nel nostro tempo, con l’affermazione di molteplici stili di vita sessuale, si assiste alla copiosa produzione delle indagini critiche sul genere. Gay, lesbiche, intersessuali, transgender, drag, ecc., infatti, lottano per il loro riconoscimento. Rifiutata, pertanto, la considerazione della sessualità come dato naturale, gli studi di genere hanno portano l’attenzione, sulla scorta di quanto sostenuto da Foucault nel suo  La volontà di sapere[6], alle pratiche sociali attraverso cui i corpi vengono disciplinati ed assoggettati.
Già il femminismo degli anni ’60 del novecento aveva contestato la credenza del carattere naturale dei generi; l’essere donna non aveva niente a che fare con la sua configurazione anatomica e la sua condizione di subalternità era piuttosto il frutto delle pratiche discorsive maschiliste.
 Il femminismo storico, però, pur rifiutando la realtà naturale dei generi, si muoveva ancora nell’orizzonte di pensiero del paradigma eterosessuale. Non così il femminismo radicale degli anni ’80 che lo ha rifiutato, permettendo la costituzione di uno spazio critico comune fra i movimenti di liberazione della donna e di quelli dei gay, delle lesbiche, dei transgender, degli intersessuali, di quanti insomma lottano per il riconoscimento della loro identità. Ed è in questo spazio riflessivo comune che hanno avuto origine i cosiddetti queer studies[7].
 Fra i contributi più significativi spicca sicuramente la riflessione della Butler autrice di due importanti opere,  Corpi che contano[8] e Scambi di genere[9]. La Butler sostiene che le pratiche sociali sono organizzate intorno alla dominanza del paradigma eterosessuale. E’ tale paradigma a suo parere a creare quegli effetti di verità che dispongono e perpetuano il diverso potere fra uomini e donne e che, insieme, determina il rifiuto e l’abiezione per le identità di genere e  sessuali diverse.
 Secondo la Butler il genere ha un carattere performativo, nel senso che è il prodotto della ripetizione reiterata delle pratiche sociali che creano l’illusione retrospettiva che il genere sia la proiezione culturale della naturalità sessuata del corpo. “Il genere non dovrebbe essere concepito semplicemente come l’iscrizione culturale di significato su un sesso dato in precedenza. […] Il genere non sta dunque alla cultura come il sesso sta alla natura; il genere è anche il mezzo discorsivo/culturale attraverso il quale la ‘natura sessuata’ o un ‘sesso naturale’ vengono prodotti o creati come ‘prediscorsivi’, come precedenti alla cultura, come superficie politicamente neutra su cui la cultura agisce”[10].
 L’eterosessualità normativa costringe gli individui a riconoscersi  esclusivamente come uomini o come donne, escludendo ogni possibilità di identità di genere intermedie o diverse. Non è affatto vero come sosteneva Freud, che noi scopriamo la diversità sessuale e assumiamo un’identità di genere nella fase fallico-genitale. E’ vero piuttosto che per ognuno di noi questo processo inizia già nella vita intrauterina o, almeno, al momento della nascita.
 In base alla configurazione dei genitali veniamo, infatti, assegnati alle due diverse e naturali tipologie sessuali, e conseguentemente sognati, nominati, toccati, guardati, agghindati, pensati e avviati attraverso gesti, espressioni, aspettative, richieste, verso l’assunzione di una determinata identità di genere. Ognuno di noi imparerà a pensarsi come un lui o una lei; imparerà a esprimere determinati impulsi, emozioni, desideri sessuali, e, perciò stesso, a disconoscere quelli che non si armonizzano con l’identità di genere che siamo costretti ad assumere. E tutto ciò accade – e questo è estremamente importante ai fini del nostro discorso sulla violenza di genere – non soltanto apprendendo che cosa è maschile e cosa femminile, ma anche introiettando il rifiuto e il conflitto- che devono essere costantemente rinnovati per essere efficaci - col genere che non siamo e che non possiamo essere.
 L’altro genere diviene pertanto, inconsciamente, l’archetipo del diverso che devo temere e distanziare, forse proprio, e a maggior ragione, perché avevo un tempo desiderato essere.
Che il discorso di genere sia costitutivamente intriso di violenza appare palese anche dalla pratica della riassegnazione chirurgica che riguarda quegli individui – il loro numero non è affatto esiguo come solitamente si pensa[11] -  che nascono con organi genitali intermedi. Tale pratica è diffusa in molti paesi.
Il retroterra culturale che guida i medici nella loro attività è il convincimento che esistano solo due sessi e generi distinti e che pertanto ne va della salute dei nuovi nati ristabilire l’ordine anatomico naturale. I criteri, poi, per decidere della riassegnazione sessuale  sono maschilisti. Ricostruire una vagina è più semplice che ricostruire un pene perché la prima è caratterizzata dalla funzione passiva di ricevere il pene, mentre per quest’ultimo si richiede la capacità di provare sensazioni e partecipare attivamente all’esperienza del piacere sessuale. Oppure sono puramente quantitativi: il pene non deve misurare meno di 2,5 cm, mentre la clitoride non più di 0,9 cm.[12]
 Le testimonianze degli intersessuali adulti denunciano la profonda violenza subita e la dolorosa esperienza della perdita di integrità della loro persona. Sempre più numerose sono oggi nel mondo le associazioni che si battono contro la pratica della riassegnazione chirurgica in età infantile, assimilandola alla pratica della mutilazione dei genitali femminili presente in tante parti del mondo, che pure è stigmatizzata dal civile mondo occidentale.
 Oggi stiamo vivendo una nuova rivoluzione sessuale. La riflessione, infatti, di quanti si sentono eccentrici rispetto alla normatività del paradigma eterosessuale sta determinando una profonda rivoluzione dei costumi e faticosamente si sta affermando il nuovo modello del “continuismo sessuale”[13] che rifiuta la semplicistica differenziazione dell’umanità in uomini e donne e giudica che essa sia piuttosto costituita da un’infinita molteplicità di identità sessuali. L’allineamento normativo fra sesso, genere e sessualità è  decisamente rifiutato; fra i tre termini non c’è un nesso unico e necessario.
 Si sostiene che l’identità di genere è una costruzione personale e che per sessualità, senza rifiutarne la dimensione biologica, debba intendersi ciò che scaturisce dalla propria storia, dalla personale esperienza. La sessualità è considerata, infatti, una complessa esperienza emotiva, diversa in ciascun individuo, conseguenza delle nostre relazioni primarie.
 La tendenza è oggi, pertanto, quella di affermare la morte del genere (trans gender: andare al di là del genere). Si guardano diversamente i corpi maschile e femminile e ci si sorprende a considerare che nonostante essi presentino soprattutto elementi di similarità – cromosomica, ormonale, neurofisiologica, anatomica -  siano invece visti come opposti. La difficoltà a porre l’accento sulla loro similarità dipende dal background culturale dell’occidente che ha sempre connotato di significati politici le relazioni fra i generi e che conseguentemente ha definito i corpi in termini di diversità al fine di giustificare la subordinazione dell’uno all’altro.
Sulla base di quanto fin qui è stato detto, proviamo ora a comprendere la sconcertante esplosione di violenza di genere (verso le donne, verso gli omosessuali, verso i trans) che caratterizza in maniera esasperata il nostro paese (e non solo) nel nostro tempo.
 Sia chiaro, la violenza di genere è sempre esistita, anche se diverse sono state le sue motivazioni e le sue espressioni. Rispetto al passato siamo oggi in presenza di un fatto epocale: la crisi profonda e irreversibile del paradigma del binarismo di genere. Ci troviamo in un contesto sociale caratterizzato, come direbbe Prigogine, da un aumento di disordine – la presenza di molteplici stili sessuali, le diverse identità di genere, la rivoluzione delle relazioni fra i sessi e la ridiscussione dei loro ruoli, la nascita delle nuove famiglie - e in prossimità pertanto di un punto di svolta.
Il nostro tempo incarna un momento di passaggio e sembra evidente che necessiti dell’affermazione di un nuovo accoppiamento strutturale fra gli individui e l’ambiente sociale e culturale. Da qui le contraddizioni e le incertezze, la coesistenza di nuovo e di vecchio, di aperture e di chiusure. Da qui anche, purtroppo, l’esasperazione della violenza di genere.
L’identità di genere riguarda, infatti, l’identità profonda, viscerale, di ogni individuo e nel nostro tempo essa, come abbiamo visto, è sottoposta ad una continua sollecitazione. Ora, se a questa condizione di stress si sommano le conseguenze drammatiche della crisi economica e valoriale in atto nel mondo occidentale che comportano il deteriorarsi della qualità dei rapporti sociali e umani, che frequentemente esitano nella perdita del posto di lavoro e della  identità sociale, nella frustrazione di ogni progetto esistenziale, ecco che allora il quadro è perfettamente compiuto.
 E’ pertanto plausibile che in un tale contesto storico-sociale si sia – specialmente quanti culturalmente e psicologicamente più deboli – maggiormente esposti al rischio di non riuscire a reggere la messa in discussione (da parte delle donne con la loro indipendenza economica, di giudizio e sessuale, dalla realtà sempre più manifesta dei  diversi stili sessuali e identità di genere) dell’ultima certezza cui aggrapparsi: l’identità di genere. Ed è plausibile che infine, completamente preda di un’angoscia di morte, si possa esprimere il proprio malessere in una violenza cieca e distruttiva verso chi con la sua diversità sembra attestare definitivamente, suo malgrado, il naufragio della nostra esistenza.    




[1] Per binarismo di genere si intende il convincimento dominante nel senso comune dell’esistenza naturale e normativa di due generi (l’uomo e la donna), senza possibilità di identità intermedie. La normatività dei generi  appare fondata sulla realtà sessuata del corpo; da quest’ultima discenderebbe parimenti e inevitabilmente la modalità naturale della sessualità eterosessuale. La pratica discorsiva del binarismo di genere realizza pertanto un allineamento normativo fra sesso, genere e sessualità. 
[2] L’espressione pratica discorsiva rimanda alla riflessione archeologica di Foucault, a quella attività di ricerca cioè volta a portare alla luce le strutture epistemiche, le coordinate teoretiche, che in una determinata epoca demarcano lo spazio concettuale entro cui soltanto è possibile distinguere il vero dal falso, il lecito dall’illecito e che attraverso l’insieme dei dispositivi disciplinari controllano e assoggettano i corpi determinando le forme della soggettività. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971.

[3] T. Laqueur, L’identità sessuale in occidente dai greci a Freud, Laterza, Bari, 1992.
[4] Ibidem, p. 117.
[5] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1970.
[6] M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1976.
[7] Il termine queer – strano, obliquo, finocchio - è nato come epiteto dispregiativo nei confronti delle forme di sessualità diversa da quella eterosessuale. Il movimento dei gay e delle lesbiche lo ha fatto provocatoriamente proprio: queer è il terrificante che smaschera la pretesa naturalità dell’eterosessualità. 
[8] J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano, 1996.
[9] J. Butler, Scambi di genere, Sansoni, Firenze, 2004.
[10] Scambi di genere, op. cit. p. 11.
[11] “ Un bambino ogni 2000 nasce con genitali ambigui per una dozzina di ragioni diverse. Esistono negli Stati Uniti più di 2000 reparti di chirurgia destinati ad effettuare ogni anno rassegnazioni chirurgiche di sesso.” V. Baird, Le diversità sessuali, Carocci, Roma, 2003, p. 111.  
[12] Ibidem, p. 113.
[13] M. Rothblat, L’apartheid del sesso, Il Saggiatore, Milano,1997.

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