mercoledì 18 marzo 2020

Covid 19. Il lungo vissuto dell'attesa


Il tempo dell’attesa


Un viaggio si intraprende con l’intenzione di raggiungere una meta. Ma i protagonisti di un viaggio sono segnati dal percorso non dalla meta.

(‘Il designer in azienda’, F. Bianco e L Rampini, FrancoAngeli ed., 2017)


Introduzione

Il brutto dell’attesa è il non sapere quanto tempo potrà durare.

In questo periodo di forzata ‘clausura’ (marzo 2020),  in cui si è confinati in casa in attesa che ‘tutto passi’ e il corona virus si allontani, o si estingua per mancanza di persone da infettare, può accadere di vivere il senso di impotenza come contrappunto al senso di onnipotenza coltivato e alimentato convenzionalmente.

Nella nostra società si è sempre sollecitata la cura e l’espressione della forza e del coraggio nel confronto con l’esistenza e, in linea con quest’indicazione, un messaggio sociale chiaro e condiviso è stato quello di figurarsi di essere un combattente.

Questa prescrizione ha portato con sé il rischio, per chi non ce la faceva, di sentirsi un debole o vigliacco.

Al contrario, l’idea di soprassedere, di lasciar correre e di lasciar passare l’acqua che prima o poi porterà il cadavere del tuo nemico’, non è stata sempre accolta con favore al punto d’essere considerata, a volte, come un pretesto per chi aveva un comportamento pavido.

Quindi porsi in attesa su un fiume ad osservare passare l’acqua, ha da sempre rappresentato ‘solo’ un messaggio filosofico che qualche (astrusa?) dottrina indica come strada da intraprendere per una vita di saggezza. Magari la si è potuta immaginare praticabile negli anni della vecchiaia, e quindi di là da venire, in quel periodo lontano dal momento attuale e dalla foga degli anni dell’arrivismo.
Quel che resta certo è che la nostra società è una società consumistica dove ‘il tempo è danaro’ e l’attesa viene vista come incertezza, titubanza, mancanza di idee chiare e confusione di obiettivi. E coloro che indugiano generano impazienza e rischiano di essere considerati indolenti e  pigri, se gli va bene, se no sono persone che andavano corretto fin da piccoli e andavano educati a ‘… smetterla di stare sempre con la testa tra le nuvole’, ma che tanto ormai sono destinati a non saper cogliere il ‘principio di realtà’.

Il minimo che possono comportare questi pre-giudizi sono i sensi di colpa che alimentano costanti sentimenti di inadeguatezza in tante persone.

La forza dell’attesa

Non serve dire tanti se, Ma la risposta so qual è: Passar di mano ed aspettare.  Julio Iglesias, Passar di mano  #citazioni #UnaCitazioneAlGiorno #7gennaio #Aspettare #JulioIglesiasAllora forse, questo periodo di forte limitazione del movimento, che l’intero paese sta vivendo, potrebbe servire a problematizzare il tema dell'attesa e si potrebbe indirizzare l’attenzione, non solo sul senso che il periodo dell’attesa può avere per ognuno (giusto, sbagliato, noioso, insulso), ma anche sui modi che ognuno ha di trascorrere questo ‘tempo passato in attesa’.
Così forse sarebbe anche possibile che, sperimentando ritmi e spazi diversi da quelli consueti, ci si potrebbe ravvedere e recuperare questa grande dimensione che, costantemente denigrata, necessita di una legittima riparazione.

L'aspettare forzatamente (che il periodo di quarantena passi, che venga il nostro turno al supermercato, che il raffreddore si attenui) che il tempo trascorri sta già insegnando alcune pratiche cui non si era più abituati: per esempio che si può anche evitare di forzare le attività che richiedono due minuti in uno e che il tempo non solo trascorre ma, nel suo trascorrere, ha un suo reale valore.
Sta insegnando che saper aspettare significa essere in possesso di una capacità particolare e che chi indugia non è necessariamente pavido o indeciso ma che, per certi versi, saper indugiare significa avere un un talento, un’attitudine positiva piuttosto che una debolezza.
Il problema sta nel farlo con competenza così che possa rivelarsi un pregio che, allo stesso modo di una strategia di combattimento, possa essere utilizzato attivamente nell’at-tendere verso lo scopo prefisso.

L’arte dell’attesa è stata una strategia che l’uomo ha dovuto imparare a realizzare fin dai primordi della sua esistenza mentre aspettava che l’animale uscisse dalla tana, che i pesci entrassero nelle nasse, che il sole nascesse e i fiori sbocciassero, che gli orti dessero i frutti e le api raccogliessero il nettare.
Ha dovuto sviluppare quest’abilità per tutte le attività che, per essere apprese e poi svolte, richiedono tempi e metodi e che, nella pazienza e nell'apparente  tedio, alimentano la creatività. Così si è imparato ad aspettare il tempo necessario, dopo aver impastato la farina e acceso un forno, che il pane cuocia e che i biscotti non brucino. E si è anche imparato che, nelle battaglie e negli assedi di fortezze, città e castelli, bisognava saper aspettare che l’aggredito soccombesse per il lungo logorio.

Così è l’Eroe a sapere e l’artigiano, l’uomo d’armi, a conoscere segreti che fanno presagire che quando l’attesa è faticosa non dipende dal 'che cosa si sta aspettando' ma dal modo in cui l'attesa si realizza. Il contadino sa intuitivamente che l'attesa può logorare tanto l’assediato quanto l’assediante e che risparmia solo colui che sa aspettare nel modo migliore

In un contesto dove tutti aspettano qualcosa è risparmiato colui che sa creare e trovare strategie alternative di ascolto e di osservazione degli eventi, delle storie, e di ciò che sta accadendo così che la stessa attesa si rivela essere attività.

L’attesa

Un modo per mettersi in attesa senza logorarsi è suggerito dalle tradizioni sapienziali che insegnano il fatto che, per sostenere lunghi periodi di immobilità fisica, è sufficiente prestare una costante attenzione alla consapevolezza del momento presente o presenza mentale[i].
Interessante è notare che, anche negli studi sull’intelligenza svolti dalla ricerca neuropsicologica, la capacità attentiva si rivela come l’attitudine maggiormente importante per l’intelligenza. 
Particolarmente interessante sono le ricerche sull’attenzione sostenuta[ii] che, non potendo essere esercitata per lunghissimi periodi di tempo senza affaticamento, va curata e protetta. 

E' evidente che il pensiero costante ad uno scopo recluta tutto l’organismo e lo pone in uno stato di tensione che lo porta prima all’affaticamento e poi all’esaurimento, fisico e psichico. Tale tensione solitamente non è avvertita perché subliminale ma genera comunque un depauperamento energetico. 
È per questo che nella vita normale, pur essendo necessario conoscere lo scopo di ciò che si sta facendo, per evitare di esaurirsi è necessario imparare strategie di recupero energetico. Una di queste è quella di imparare a staccare il pensiero dall’obiettivo portando  l’attenzione sulle stesse procedure adottate per raggiungerlo.

Allo stesso modo del perseguimento dell’obiettivo, anche questa strategia non va però realizzata con accanimento ma rispettandone i tempi di ideazione, cosa si può fare, a sua volta, osservandone le modalità, cioè il modo in cui si arriva a prestare attenzione al modo strategico ideato per realizzare lo scopo.

Ma perché ci sia un rispetto adeguato dei tempi e ritmi, personalmente penso sia necessaria la presenza di un’altra variabile importante: la ‘spensieratezza’.

La spensieratezza non è necessariamente l’assenza di pensiero, o il volgersi del pensiero ad aspetti ludici e superficiali distaccandosi dalla realtà (mind/wandering). La spensieratezza va recuperata alla capacità di essere attenti e presenti senza obblighi né assilli e si lega alla fiducia perché solo quando si ha fiducia si può essere rilassati pur lasciandosi avvolgere e coinvolgere dagli accadimenti.

Se per l’attuazione di questi piani sono distanti e difficili gli insegnamenti sapienziali, allora si può fare riferimento a Winnicott per avere un riferimento più occidentale e capire quanto il processo dell’attenzione ‘non focalizzata’ appartiene naturalmente a tutti e ci guida fin da piccoli[iii]
Proprio osservando i giochi dei bambini si potrebbe imparare, cercando di recuperarli, quei modi di partecipare alle azioni così coinvolgenti, come quando si immergono nell’esperienza fino a dimenticare di mangiare o di tornare a casa per andare in bagno.

In queste attività ludiche sono presenti dimensioni che crescendo si diluiscono e poi spariscono. 
Per esempio la passione e la capacità di esultare sono dimensioni psicologiche che smettono di esistere con l’avanzare dell’età. Esse comprendono una partecipazione totale dell’organismo che non si stancherebbe mai di essere presente e attento se solo si riuscisse a non dimenticarle o a recuperarle.

Di fatto è nell’assorbimento con i loro giochi che i bambini imparano e i loro non sono solo voli fantastici. Sono anche viaggi in un vissuto creato in quel momento, da ognuno di loro, con caratteristiche che conferiscono a quel momento una unicità non replicabile.

È la creatività del vissuto personale che si esprime incondizionatamente.

È quell’estro di fantasia e giocosità che dona il senso del ‘piacere’ e che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
È quello che poi si continua a cercare nel corso dell’intera esistenza e che rimane solo come anelito nelle diverse attività adulte. È quella semplice capacità di gioire che si disperde man mano che si cresce e si diventa consapevoli della propria adultità.

l'attesa - foto artistiche di LunaandSam su EtsyDa questo punto di vista ‘saper attendere’ non è più solo aspettare che il tempo passi ma rappresenta anche la capacità di cogliere le occasioni di disimpegno per riprendere contatto con le proprie fantasie, con i propri giochi pindarici, con le proprie gioie e piaceri che si è sacrificati al dio del rendimento  e della prestazione.

Rappresenta l’occasione per meglio osservarsi, per guardarsi dentro e da fuori scoprire che si è soli o insieme, e che si è rimasti coinvolti, anche da grandi e pur senza desiderarlo, in giochi individuali, di coppia o di gruppo che ci possono stare stretti o  larghi. Che questi momenti e spazi si sanno e si possono comunque vivere oppure, al contrario, che fanno paura e non si è capaci di viverli perché, quando ci si accorge di essere soli, si può scoprire di non saper più vivere da soli e ci si può svuotare d’aria fino a sentirsi persi nella propria individualità.

Ci si può scoprire soli e aver paura anche di stare da soli.

Il rispetto dell’attesa

Quella di saper aspettare è una dimensione importante in ogni attività ma nell’attività psicoterapeutica lo è in maniera particolare.

Nello spazio analitico l’attesa, e il saper attendere, acquistano un valore che semplifica e delucida il senso del rispetto laddove il senso di ogni psicoterapia è dato dalla capacità di tradurre il tempo dell’attesa, del saper aspettare appunto, nella comprensione dell’individuo.

Sin dal concepimento l’organismo umano si realizza eseguendo ritmi che soddisfano bisogni intrinseci dell’individuo e di cui la persona non è consapevole.
Nel corso dell’evoluzione questi bisogni si modificano incorporando messaggi ed esigenze ambientali che trasformano l’individuo in una persona con un suo carattere, una sua forma (fisica e mentale) un suo ritmo (di apprendimento, nutritivo, respiratorio ecc.) ed una sua modalità di relazionarsi.
Quest’ultima modalità sarà quella che, cristallizzandosi, impedisce alla persona di continuare ad imparare ad imparare (questa ripetizione non è un refuso. Nota dell’autore) nel corso dell’intera esistenza. Ciò accade perché il modo in cui si apprende ad interagire nelle prime esperienze neonatali sarà quello che più facilmente, e consuetudinariamente, verrà utilizzato nelle relazioni.
L’abitudine e la consuetudine, come tutte le routine, saranno una garanzia ma anche un limite perché, pur soddisfacendo una economia generale (così facendo l’organismo si adatta ad una sopravvivenza fatta del minimo impegno e massimo rendimento) in realtà tale garanzia si concretizza solo capitalizzandosi in una economia prestazionale che l'organismo, così facendo, sostiene.

Di contro ciò comporta un irrigidimento delle modalità di apprendimento e delle modalità di relazione che, configurandosi come espressioni caratteriali, modificano anche l’attitudine di imparare ad imparare.

Ma fortunatamente, caratteriale non vuol dire immodificabile e lo sanno gli operatori della salute mentale che sono coloro che, presto o tardi, imparano a fare del saper aspettare e dell’imparare ad imparare gli strumenti principe dell’aiuto psicologico.

Capita spesso di rivolgersi alla psicoterapia per diversi motivi che, in qualche modo, possono essere ricondotti soprattutto al bisogno di allentare le maglie della capacità di apprendimento che, nel corso del tempo tendono un po’ ad irrigidirsi. Per esempio, quando ci si rende conto di non riuscire a venir fuori da pensieri assillanti, da modalità di relazione ridondanti, da schemi mentali fissi che danno sempre gli stessi risultati e ci si rende conto di aver dimenticato come si impara (ad aprire una nuova finestra nella mente e qual è il profumo dell’aria pulita e il gusto della vicinanza amicale o intima, d’amicizia o d’amore), allora si avverte, e a volte anche si coglie, il bisogno di dover imparare a guardare la realtà in modi diversi da quelli abituali e di dover anche re/imparare modi nuovi per imparare.

Da queste esperienze sorge una domanda complessa che, appartenendo all'organismo nel suo complesso, si rivela sovradeterminata rispetto a tutti gli indirizzi di psicoterapia cui spetta il compito della risposta.

Ma in realtà per rispondere a questa domanda non esistono strumenti codificati e anche gli psicoterapeuti, il più delle volte, si devono adoperare da soli ed imparare di propria iniziativa a sviluppare una nuova capacità d’osservazione che, come per i bambini, sia correlata e non distinta dall’assorbimento esperienziale gaudioso.

Negli anni dei giochi di formazione professionale gli psicoterapeuti imparano da soli ad aspettare e, mentre aspettano, ad essere orecchie ed occhi. Imparano a ri/diventare curiosi del modo in cui le persone si relazionano, di come si raccontano, di come respirano mentre fanno le cose che fanno e come, così facendo, osservano, ascoltano e annusano il tempo che passa. Re/imparano ad at/tendere che le persone trovino la fiducia nello spazio analitico, che vi si adattino a proprio modo dispiegando il loro modo di sognare la vita e costruire l’esistenza che è soggettivo, individuale e personale.

Quando anche per gli psicoterapeuti arriva il momento dell’attesa, accade un pò come per tutti ai tempi del COVID 19. Ci si accorge drammaticamente dell’improvvisa sparizione dei rituali catartici, svuotati e poi dissoltisi nel tempo delle tecnologie avanzate. Si scopre la frequente inconsapevolezza della sofferenza come dell’amore e nella vita, come in terapia, si scopre la necessità di un cambio di registro e che è necessario smetterla di affannarsi nella corsa e che è necessario fermarsi.

Rallentare, indugiare, fermarsi e respirare. 

Paradossalmente è solo nei momenti di vuoto che si impara la pienezza dell'attesa e a fornire alle proprie attitudini la perspicacia dell’indugio, dimensione in cui è possibile cogliere il rispetto del ritmo e del tempo delle modalità di passaggio. Di quei momenti soggettivamente unici di transito, da cui è puntellata la nostra crescita, e che da un momento all’altro, da una sponda all’altra e da una separazione a un approdo, danno conto di una soggettività che, avendo perso il salvagente dei riti, cerca in una relazione la riparazione per riprendere a imparare e per continuare ad essere.


Giuseppe Ciardiello


[i] Questa strategia, a volte chiamata della ‘nuda’ o ‘pura’ attenzione, consiste in una “chiara e sicura consapevolezza di ciò che realmente avviene a noi e in noi, nei successivi momenti di percezione ”. Differisce dalla nostra ordinaria modalità percettiva in quanto è distaccata e ricettiva, e permette di registrare accuratamente qualunque cosa accada nella mente e nel corpo, distinguendo attentamente le reazioni mentali ed emotive degli eventi in sé e per sé. (M. Epstein, ‘Psicoterapia senza l’Io’, Astrolabio, 2008, p. 141)
[ii] la capacità di sostenere la prontezza di risposta agli stimoli per il tempo richiesto da un compito
[iii] (Winnicott) prendendo le mosse dall’esperienza infantile, il suo discorso riesce a spiegare qualcosa che anche il buddhismo, a modo suo, sottolinea: lo stato della nuda attenzione ci è connaturato. (M. Epstein, 2008, p. 145)

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