Nel campo psicoterapeutico il tema dell'intersoggettività dovrebbe ormai aver preso piede al punto da esautorare completamente gli approcci intrapersonali.
Invece il rimando ad un mondo interno all'uomo, autonomo e indipendente dai rapporti sociali, persiste in maniera evidente sia nei vecchi modelli che nei nuovi anche se velato da riferimenti apparentemente innovativi.
Per esempio, l'idea di un'energia che, anche se biologica, è dotata di un'intelligenza che precede le interazioni oggettuali e i rapporti, implicitamente rischia di affermare che il modo in cui ogni individuo si compone, fisicamente e caratterialmente, dipende dalle sue dotazioni organiche più che dagli scambi con la realtà esterna al sé.
Ma molti autori oggi sembrano affermare il contrario!
“Le due menti creano l’intersoggettività e l’intersoggettività modella le due menti. Il centro di gravità si è spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo.
In modo simile, l’intersoggettività presente nella situazione clinica non può essere considerata solo un utile strumento terapeutico o uno dei tanti modi di relazionarsi all’altro che possiamo decidere di utilizzare o tralasciare all’occorrenza, ma deve essere vista come l’essenza stessa del processo terapeutico. Tutti gli atti fisici e mentali vanno esaminati alla luce di determinanti intersoggettive fondamentali, poiché sono radicati in questo tessuto intersoggettivo. Naruralmente, una parte del materiale clinico proviene dal repertorio ( passato e presente) del singolo individuo, ma anche in tal caso il momento in cui appare sulla scena, la sua esatta forma finale e le sfumature di significato che esso assume si modellano all’interno di una matrice intersoggettiva. (‘Il momento presente’, Daniel N. Stern, RaffaelloCortinaEditore, 2005)
Credo che ciò che Stern suggerisce sia tanto evidente che non si sente quasi mai il bisogno di ridefinirlo.
Ma forse è necessario ribadire e sottolineare che l'intersoggettività riferita ad organismi viventi e intelligenti, di qualunque intelligenza e vita si tratti, va intesa nel senso di un adattamento reciproco, dettato dalla necessità di sopravvivenza, che prende avvio fin dall'inizio dell'esistenza.
Eppure, pur constatando la veridicità di queste affermazioni, e pur considerando vero quanto si dispiega nei processi intersoggettivi che ammettono la contemporaneità dei cambiamenti sociali e strutturali biologici che compongono e circondano l’organismo, rimane nel nostro vissuto immaginario qualcosa che s’impone e spinge ancora a privilegiare un punto di vista intrapersonale.
Malgrado il sapere e il riconoscimento delle neuroscienze si continua ad essere più orientati a guardare ai dettagli piuttosto che all'insieme e quando in psicologia si guarda ai disturbi e alle patologie, gravi o leggere che siano, i meriti e i demeriti vengono ancora riferiti al singolo piuttosto che alle relazioni e a volte solo con molta difficoltà ci si convince dell'idea che possa veramente dipendere dalla relazione.
Si può rintracciare l'aspetto paradossale di questa convinzione nella paura della solitudine e della rabbia che ne consegue! La condizione di solitudine, vissuta nel corso delle esperienze esistenziali, è forse la causa che impedisce di ammettere di essere in costante interazione giacché in ogni momento di separazione e di approdo ci si scopre drammaticamente e rabbiosamente soli.
Ed è il momento presente a sottolineare questa condizione; è la consapevolezza della solitudine nei momenti più importanti della vita, nella nascita e nella morte, a renderci inveterati sostenitori dell'individualismo evolutivo.
In quei momenti ognuno sente che non c’è appello che tenga. Non c’è rete di salvataggio, non c’è giustificazione al terrore che fa rizzare i capelli e che contemporaneamente avverte dell’immodificabilità della stessa condizione di solitudine.
Forse è questa paura agghiacciante che primeggia e, imponendosi su tutto il resto, arriva a colorare di solitudine quei frangenti in cui, sempre con rabbia, si individua un'unica responsabilità: la propria.
Ciò avviene forse per una spinta impropria ad un’assimilazione errata che è quella che porta a formulare il seguente ragionamento: se si è soli di fronte alle svolte principali della vita, allora vuol dire che si è i soli responsabili del carattere assunto e delle scelte comportamentali che si mettono in atto.
Questa errata assimilazione si attua perché si è arrabbiati e distratti e, molto presi dai vissuti caricati eccessivamente dalle valenze immaginative, si presta poca attenzione alle valenze vibrazionali degli oggetti che con le vibrazioni dettate dalla loro massa, ritmo, luce, calore, movimento ecc., condizionano già abbondantemente i rapporti ancora prima che subentrino le interazioni sociali.
Pur non volendo rispolverare il concetto animistico, bisogna però affermare che se considerassimo l'energia degli oggetti di natura interazionale, parlando dell'organismo uomo sarebbe automatica la considerazione intersoggettiva che sarebbe come affermare che nella vita non si è mai soli anche se non ci ne accorge per il semplice motivo che si è riluttanti ad accettare l'idea di doversi accontentare del modo in cui l'esterno ci è reso disponibile mentre si vorrebbe essere in compagnia solo nel modo in cui noi ne abbiamo bisogno.
E' possibile sia questa ostinazione a rendere ostici nella comprensione delle modalità interattive il che potrebbe anche spiegare per quale motivo, quando si proiettano i propri bisogni, il modo in cui gli altri, qualunque altro, ci sta vicino importa poco o niente perché non corrisponde a quanto desiderato.
Queste considerazioni seguono alcune riflessioni di un po' di tempo fa che, meno organizzate, non riuscivano da sole a definire il contesto cui cercavano di dare senso. Era il tentativo di spiegare quanto una normale realtà evolutiva potesse essere traumatica.
Si nasce e si
muore soli.
Si nasce tra umori,
di natura anche escrementizia, dove all’improvviso appaiono rumori e voci, luci
e temperature inaspettate, contatti traumatici che s’impongono con tutta l’irruenza
della realtà che, per alcuni versi e quando si ripete spesso e per lungo tempo,
assume l’aspetto del trauma. La dimensione della solitudine, in cui
l’esperienza è vissuta in prima e persona, ci accompagna da quel momento
in poi fino all’età tarda quando si realizza che il tempo che rimane da vivere
è minore di quello che si è vissuto, e ci si scopre sempre più soli. La
dimensione dei sopravvissuti è una strana dimensione in cui si avverte sempre più
ridotta la possibilità di comunicare il corruccio e l’ansia per il tempo che
passa. Si avverte uno strano senso di irreversibilità degli eventi e
l’approssimarsi, sempre più vicino e sempre più irreale, dell’ultima spiaggia,
di quel momento di solitudine in assoluto che la sancisce per sempre.
Pur consapevoli
dell’immodificabilità di questa condizione ci si scopre comunque grati per una
mano che tiene la nostra, per un sussurro che occupa lo spazio acustico che, più
o meno lentamente, si sta svuotando di senso. Si è grati come lo si è stati per
l’intera esistenza quando si era tesi al riempimento dei vuoti, mai reali ma
sempre veri, della vita.
Comunque sia, la
dimensione della solitudine, pur rappresentandosi in particolar modo alla fine
e all’inizio della vita, è presente in ogni esperienza e in ogni momento di
apprendimento.
Infatti sono
questi processi organismici, riconducibili a esperienze di apprendimento, e che
si realizzano anche nell’inconsapevolezza di sé stessi, che ci rendono capaci d’ideare
strategie di sopravvivenza soggettivamente congeniali e che, non avendo morale
né etica, nel loro essere opportunistiche generano un vissuto sentimentale egoistico.
Così l’esperienza della
solitudine è un’ombra che appartiene a tutti e che rende uguali pur nella
diversità dei modi di viverla.
Questa condizione biologica
si scontra con il vissuto dell’essere stato concepito in una relazione e
dell’essere sempre vissuti nelle relazioni. Da questo contraddizione nasce il
conflitto che si accompagna alla paura atavica di scoprirsi soli nella vita,
invece che da soli nelle proprie esperienze, e quindi la spinta culturale di
ricorrere allo psicoanalista, nel nostro tempo, come ad un santone o un
confessore in altri tempi.
Insomma, la paura
della solitudine e la dimestichezza o semplicità dell’aver a che fare con le
emozioni di questa dimensione, può essere il motivo di una scelta di campo che
ha sempre fatto bypassare l’aspetto di fondo della terapia reichiana: quello
relazionale.
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