martedì 16 maggio 2023

La malattia dell'indifferenza

 Stavo pensando ad un libro che ho letto un po' di tempo fa. È un libro di Yalom ("Psicoterapia Esistenziale", Irvin D. Yalom, Neri Pozza Editore, 2019) in cui parla nello specifico della condizione della nostra esistenza per la quale, quando veniamo al mondo, è come se entrassimo in una sala cinematografica. Siamo gli ultimi ad entrare perché gli ultimi nati. Mano a mano che passano gli anni, i nostri posti cambiano e ci avviciniamo sempre di più allo schermo liberandosi quelli a noi davanti. Fin quando poi, arrivati ai primi posti, in prossimità dello schermo, ci tocca uscire dalla sala.


Non è solo l'occasione del compleanno (70 anni) a portarmi a questo pensiero. Credo che sia l'avvicinarsi dello schermo, l'accorgermi giorno dopo giorno che sempre più precipitosamente si avvicendano i giorni e il tempo che mi rimane è molto meno di quello già trascorso. Sono sempre più vicino al momento in cui anch'io mi alzerò per uscire da questa sala.

Forse a quest'età ci può stare il fare un po' il resoconto della propria vita. Mi chiedo allora se ho impegnato bene tutto il tempo che era a mia disposizione. Ed è stato leggendo 'La nuova manomissione delle parole' di Gianrico Carofiglio (Feltrinelli, 2021) che ho potuto essere generoso nei miei stessi confronti e donarmi un piccolo plauso riconoscendomi uno sforzo alla coerenza e all'onestà intellettuale.


Ho capito che l'inganno più grosso che si può realizzare nella propria esistenza, è coltivare l'idea di potersi assolvere solo perché ci si è tenuti fuori dalla mischia.

Quest'idea è sostenuta da un vero rivoluzionario che in questo libro Carofiglio riprende pari pari. Si tratta di uno scritto di Antonio Gramsci del 1917 il cui titolo è 'Odio gli indifferenti' e che apparve nella sua rivista “La Città Futura":

Odio Gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “Vivere vuol dire essere Partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Che vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Le indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvengano, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e che non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e che indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tale male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così da loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. È sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che stava la finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio che non parteggia, odio gli indifferenti.

A questo punto Carofiglio continua citando la frase di una canzone di Bob Dylan che alcuni anni dopo, molto più sinteticamente, dicono la stessa cosa:

How many times can a man turn is head/pretending that he just doesn't see

(Quante volte un uomo può voltare la testa facendo finta semplicemente di non vedere.)

Giuseppe Ciardiello

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