sabato 20 maggio 2023

Cosa c'entra l'indifferenza con Reich?

 Certo in un blog sulla psicoterapia sembra strano che ci si possa esprimere sull'indifferenza senza relativizzarla ad un processo psicoterapeutico. Viene da chiedersi se sia normale essere indifferenti, e se è una patologia o se comunque un disturbo, in quale categoria relegarlo? 

Ma allora, in linea col desiderio di scrivere sull’indifferenza, ci si potrebbe chiedere sul senso di questa energia dell’indifferenza. E' veramente quello dell'indifferenza un atteggiamento derivante dall'assenza di energia o non è piuttosto un atteggiamento derivante da una perversione energetica?


Normalmente l'energia, come la vita, non passa da un essere all'altro. Essa è trasfusa da un organismo all'altro nel senso che è attivata allo stesso modo in cui è attivata nell'organismo originale. In pratica potremmo dire che la vita è una riproduzione frattalica. È un clone matematico. La vita appartiene alla vita; non è regalata da nessuno a nessun altro né alcuno è veramente debitore di qualcun altro per la vita che lo vive. È dato dalla vita alla vita non da qualcuno a qualcun altro. 

Ma la spinta, l'intenzione che vive dentro di noi e che in qualche modo tende ad uno scopo ben specifico, quella viene da qualche altra parte; viene dal nostro passato, dalla combinazione di eventi che hanno costituito il nostro carattere, e che con questa indifferenza forniscono alla nostra vita in questo momento il senso specifico che la colora.  

E quando questo senso non c'è, vuol dire che qualche altra cosa dentro di noi, qualche altro senso, è subentrato per impedirlo.


Strano a dirsi in un contesto terapeutico, ma nella psicoterapia reichiana non è contemplata l'indifferenza. È contemplato esattamente il suo contrario; è prevista la partecipazione viscerale spontanea, istintiva che con tecniche e strategie adatte, quindi con l'analisi degli aspetti cognitivi e sociali adeguati, riesce a realizzare un comportamento adeguatamente modulato dalle strategie apprese nel gruppo di appartenenza. 

La realizzazione di tutto ciò è indice di partecipazione. 

Quando subentra l'indifferenza non è necessariamente vero che manca qualsiasi senso della vita. Rimane il senso personale dove si resta indifferenti per economia, perché fa comodo, perché è più semplice, per uno strano senso di narcisismo per il quale si rimane aggrappati, si rimane appesi alla salvaguardia di un senso di sé assolutamente egocentrico. 

Da questo punto di vista non è assolutamente vero che l'indifferenza comporti una tranquillità fisico chimica. Come non è vero che le persone indifferenti siano liberi da problemi psicosomatici.


Le asme, le aritmie, i bruciori di stomaco, le ansie, gli attacchi di panico, le crisi di insonnia, gli aspetti anoressici e bulimici, sono tutte manifestazioni che continuano rivelarsi nei caratteri e nelle personalità indifferenti. 

Spesso nelle persone indifferenti quello che maggiormente si riscontra è proprio la pressione alta, uno strano squilibrio vagale. È indice di un controllo quasi arcaico, automatico, che è diventato strutturale nella dinamica della personalità. Non ci si accorge nemmeno più di controllarsi, non c'è sforzo fisico o psichico tendente a distrarre da quello a cui si sta assistendo. L'indifferenza è diventata parte costitutiva della muscolarità, per cui gli occhi, la testa, il collo, le spalle, tutto il complesso dell'organismo si configura partecipando ad un atteggiamento di indifferenza. Quando accade di accorgersi di essere spettatori di un evento increscioso, tutto l'organismo partecipa alla distrazione, alla spinta organizzata per indurre l'organismo a guardare da un'altra parte. 


Allora è evidente che anche in questo caso, anche con l'atteggiamento dell'indifferenza la psicoterapia può fare molto. Intanto aiutando a capire che l'indifferenza non è un sentimento né un'emozione ma un atteggiamento per realizzare il quale le emozioni e i sentimenti sono stati silenziati (siamo bravi in questo per salvaguardare la nostra tranquillità).

Con la relazione terapeutica si può riscoprire dentro di sé il gusto dell'interessere, il senso della partecipazione sociale, il desiderio dell'appartenenza, il bisogno dell'aiutare per essere aiutati, e smettere di essere spaventati dalle richieste e dai bisogni che possono essere reciprocamente espressi; una vera relazione umana in un ambiente/spazio protetto può assumere il senso di un lavoro psicoterapeutico che va a ricostruire nel rapporto duale la ridefinizione di esseri umani.


Giuseppe Ciardiello

martedì 16 maggio 2023

La malattia dell'indifferenza

 Stavo pensando ad un libro che ho letto un po' di tempo fa. È un libro di Yalom ("Psicoterapia Esistenziale", Irvin D. Yalom, Neri Pozza Editore, 2019) in cui parla nello specifico della condizione della nostra esistenza per la quale, quando veniamo al mondo, è come se entrassimo in una sala cinematografica. Siamo gli ultimi ad entrare perché gli ultimi nati. Mano a mano che passano gli anni, i nostri posti cambiano e ci avviciniamo sempre di più allo schermo liberandosi quelli a noi davanti. Fin quando poi, arrivati ai primi posti, in prossimità dello schermo, ci tocca uscire dalla sala.


Non è solo l'occasione del compleanno (70 anni) a portarmi a questo pensiero. Credo che sia l'avvicinarsi dello schermo, l'accorgermi giorno dopo giorno che sempre più precipitosamente si avvicendano i giorni e il tempo che mi rimane è molto meno di quello già trascorso. Sono sempre più vicino al momento in cui anch'io mi alzerò per uscire da questa sala.

Forse a quest'età ci può stare il fare un po' il resoconto della propria vita. Mi chiedo allora se ho impegnato bene tutto il tempo che era a mia disposizione. Ed è stato leggendo 'La nuova manomissione delle parole' di Gianrico Carofiglio (Feltrinelli, 2021) che ho potuto essere generoso nei miei stessi confronti e donarmi un piccolo plauso riconoscendomi uno sforzo alla coerenza e all'onestà intellettuale.


Ho capito che l'inganno più grosso che si può realizzare nella propria esistenza, è coltivare l'idea di potersi assolvere solo perché ci si è tenuti fuori dalla mischia.

Quest'idea è sostenuta da un vero rivoluzionario che in questo libro Carofiglio riprende pari pari. Si tratta di uno scritto di Antonio Gramsci del 1917 il cui titolo è 'Odio gli indifferenti' e che apparve nella sua rivista “La Città Futura":

Odio Gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “Vivere vuol dire essere Partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Che vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Le indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvengano, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e che non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e che indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tale male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così da loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. È sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che stava la finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio che non parteggia, odio gli indifferenti.

A questo punto Carofiglio continua citando la frase di una canzone di Bob Dylan che alcuni anni dopo, molto più sinteticamente, dicono la stessa cosa:

How many times can a man turn is head/pretending that he just doesn't see

(Quante volte un uomo può voltare la testa facendo finta semplicemente di non vedere.)

Giuseppe Ciardiello

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