venerdì 8 agosto 2025

'Pane al pane' in psicoterapia e dintorni

Proviamo a dire pane al pane anche in psicoterapia…


Capita di trovare in internet elogi circa una psicoterapia o l’altra e trovarsi un po' disorientati. Non parliamo poi di quando ci si trova a leggere di elogi circa ‘strumenti’ specifici che niente hanno dei modelli psicoterapeutici. Approfondendo la questione ci si accorge che perfino gli addetti ai lavori hanno idee un po' confuse circa la differenza tra un modello psicoterapeutico, le tecniche e gli strumenti usati in quest’ambito e, quando e se ne parlano, li sovrappongono superficialmente.

Nel presente contesto, e senza nulla togliere alla validità degli strumenti e tecniche che andremo ad elencare, ci teniamo a rimarcare la differenza fondamentale tra gli strumenti e il modello all’interno del quale tali strumenti sono usati.

Parliamo innanzitutto di quegli accorgimenti operativi che oggi vanno per la maggiore: PNL (Programmazione Neuro-Linguistica), EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). Sono strumenti tecnici utili in ambito psicoterapeutico, ma sebbene frequentemente utilizzati in ambito clinico, è importante sottolineare che non rappresentano modelli psicoterapeutici completi. Sono tecniche o metodologie che possono essere integrate all'interno di approcci psicoterapeutici (modelli) anche diversamente strutturati.

La PNL, sviluppata negli anni ’70 da Richard Bandler e John Grinder, si propone come un insieme di tecniche finalizzate a migliorare la comunicazione e favorire il cambiamento comportamentale; tuttavia, numerosi studi ne hanno messo in discussione la validità scientifica e l’hanno collocata al di fuori dei modelli evidence-based (Sharpley, 1987; Witkowski, 2010).

L’EMDR, invece, si è affermato come intervento efficace nel trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) e di altri traumi, ricevendo anche il riconoscimento di linee guida internazionali (APA, 2017). Nonostante ciò, l’EMDR è una tecnica, e non un sistema teorico globale, come nel caso della terapia cognitivo-comportamentale o della psicoterapia psicodinamica.

Anche quella che oggi, sempre più comunemente, si conosce come mindfulness, non è una psicoterapia in sé ma una pratica o tecnica che può essere integrata nei modelli psicoterapeutici. Malgrado abbia ricevuto crescente attenzione per la sua efficacia clinica, soprattutto nel trattamento di disturbi legati all’ansia, alla depressione e allo stress, è necessario distinguere tra la pratica della mindfulness in senso generale (ad esempio quella derivata dal buddhismo o impiegata per il benessere personale) e gli interventi basati sulla mindfulness, e sviluppati in ambito clinico primariamente da John Kabat Zinn (come l’MBSR e l’MBCT). Pur essendo standardizzati, queste tecniche non costituiscono da sole approcci psicoterapeutici completi, ma protocolli psicoeducativi o tecniche di supporto.

Pertanto, si può ribadire che, pur risultando utili e in alcuni casi clinicamente molto efficaci, PNL, EMDR e Mindfulness non possono essere considerati, da soli, approcci psicoterapeutici autonomi e riconosciuti dalle principali istituzioni accademiche e professionali (es. APA, OMS, Ordine degli Psicologi).

Andando ancora più a ritroso, anche l’ipnosi (o ipnoterapia) non è, di per sé, un modello psicoterapeutico bensì una tecnica clinica utilizzata in diversi contesti terapeutici. Lo stesso si può dire dell’ippoterapia, ludoterapia e delle Arti Terapie in genere (musicoterapia in primis).

L’ipnosi è spesso impiegata in integrazione con modelli riconosciuti, come la terapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia psicodinamica o la psicoterapia breve strategica, ma come le altre non costituisce un approccio teorico autosufficiente perché manca di un sistema teorico articolato su psicopatologia, diagnosi, relazione terapeutica e sviluppo della personalità.

Anche l’Ordine degli Psicologi italiano e le principali società scientifiche (come la SII – Società Italiana di Ipnosi, fondata da Franco Granone) la definiscono una tecnica clinica, che possono usare solo professionisti formati, ma non può essere considerata un modello psicoterapeutico autonomo.

Ecco che ci si trova allora a dover distinguere tra modelli, tecniche e strumenti psicoterapeutici che molto spesso, specie nel mondo di internet, sono usati in modo intercambiabile.

Un Modello psicoterapeutico è una cornice teorica e applicativa completa che comprende una visione della mente, della psicopatologia, della diagnosi, del cambiamento e della relazione terapeutica. Dispone quindi di una elaborazione teorica e pratica, di tipo relazionale, che prevede utilizzi specifici di spazi fisici e temporali. Il setting è dettagliatamente descritto come preambolo ad una relazione che per il suo tramite induce una rivisitazione, non solo del comportamento, ma del carattere formatosi per mezzo delle altre relazioni che l’hanno preceduta.

Esempi: psicoterapia cognitivo-comportamentale, psicodinamica, sistemico-relazionale, analitico-transazionale, bioenergetica, vegetoterapia, ecc.

Le Tecniche psicoterapeutiche sono metodologie strutturate basate su evidenze, cliniche e/o sperimentali, che possono essere utilizzate all’interno di modelli per favorire specifici obiettivi (es. riduzione dell’ansia, rivisitazione del trauma, gestione dello stress).
Ne sono esempi: EMDR, ipnosi, mindfulness, esposizione graduale, ristrutturazione cognitiva.

Gli Strumenti psicoterapeutici sono mezzi operativi che il terapeuta usa in modo trasversale ai modelli, come il linguaggio, il silenzio, il contatto corporeo (in alcuni contesti), la postura, il tono di voce, ecc.
Questi
non sono tecniche strutturate né modelli ma componenti della relazione terapeutica o mezzi comunicativi usati consapevolmente a seconda del setting e dell’approccio.

A seconda della formazione, e dell’approfondimento specifico soggettivo e individuale, l’efficacia di questi strumenti dipende dall’abilità del terapeuta che può avere più o meno dimestichezza nell’uso della parola e/o del silenzio.

Il silenzio e la parola sono strumenti psicoterapeutici tanto impliciti che spesso non si avverte neanche la necessità di renderli materia didattica. Anzi, a volte, l’uso dell’uno è caldeggiato a sfavore dell’altro.


In ambito vegetoterapeutico è sempre stato enfatizzato il silenzio. Già Navarro (1925-2002) raccomandava di astenersi dall’uso delle parole nel setting vegetoterapeutico. Personalmente dubito che fosse un’indicazione assolutista mentre altri colleghi ritenevano di doversi affidare esclusivamente all’esecuzione degli acting. … penso sia stato per questo che nel corso della mia seconda psicoterapia non ho mai capito qual’era il tono di voce del mio terapeuta né se il suo sottrarsi dallo scambio verbale dipendesse dalla timidezza o dal timore del confronto.

Piuttosto che la completa negazione della parola, credo che Navarro suggerisse una sorta di moderazione dell’intervento verbale, e quindi una sua modulazione specificamente finalizzata. Questa raccomandazione credo tendesse a sollecitare la pretesa di sapere quale valore dare all’intervento verbale in relazione all’intento per il quale sarebbe stato utilizzato.

Tutto ciò anche perché, oltre che per l’agito, la psicoterapia passa per il comprendere; non ci si può affidare unicamente al silenzio perché la comprensione pretende la spiegazione e l’eventuale sottrarcisi denuncia l’incapacità di essere lineari, semplici e convincenti. Dimostra di non aver capito quello di cui si sta parlando o di non aver compreso, non il silenzio, ma quello per cui si sta tacendo. Tacere può voler anche dire che ci si riferisce ad un taciuto che non trova corrispondenza nella relazione ed espone comunque ad un dubbio che necessita della parola per disvelarsi.

Per noi cultori della vegetoterapia è quindi importante cogliere in questi due aspetti della relazione, nella parola e nel silenzio, il valore evidente dell’abilità nel loro utilizzo. È importante cogliere il fatto che non è lo strumento di per sé ad essere ‘abile’ ma l’uso che se ne può fare: sarà quindi l’operatore ad essere un abile utilizzatore del silenzio, al momento opportuno, e della parola, se la usa, se e quando è necessaria, nel modo opportuno.

Ben venga allora anche una didattica (particolarmente in vegetoterapia) sull’uso del silenzio che si associ alle sue condizioni d’uso: per esempio il silenzio s’accompagna, quasi sempre, ad un attenta e sistematica utilizzazione dello sguardo. Anche ad occhi chiusi, lo sguardo non è solo interno ma assume anche un significato relazionale. E vedere non significa solo avere gli occhi aperti, bensì essere attenti e consapevolmente presenti a quello specifico vedere.  Sapere cosa si sta guardando, in che modo lo si sta facendo (mentre si ascolta i nostri occhi si spostano continuamente e scandagliano il volto e il torace dell’interlocutore) e sapere di sapere che lo si sta facendo e così essere consapevoli di cosa si sta provando, ecc.

Quindi, per concludere, enfatizzare il valore dell’uno o dell’altro, come cosa a sé, dimostra solo una cattiva comprensione strumentale del modello vegetoterapeutico stesso!

Giuseppe Ciardiello

Bibliografia

Granone, F. (1998). Ipnosi e psicoterapia. Edizioni Minerva Medica.

Loriedo, C. (2010). Ipnosi medica e psicoterapia. Franco Angeli.

Caparrotta, L. (2002). L’ipnosi nella pratica clinica. Alpes Italia.
Chiesa, A., & Crescentini, C. (a cura di). Gli interventi basati sulla mindfulness. Quali sono, come agiscono, quando utilizzarli, Giovanni Fioriti Editore, II ed. 2023.
Montano, A. Mindfulness. Guida alla meditazione come terapia, Ecomind, 2007.
Guida pratica che chiarisce come la mindfulness funzioni c
ome tecnica, illustrandone l’integrazione nei modelli della terapia cognitiva.

Witkowski, T. (2010). Thirty-Five Years of Research on Neuro-Linguistic Programming. NLP Research Data Base. State of the Art or Pseudoscientific Decoration? Polish Psychological Bulletin, 41(2), 58–66.
Una revisione critica della letteratura sulla PNL, che conclude che essa manca di fondamento empirico.

Shapiro, F. (2001). Eye Movement Desensitization and Reprocessing: Basic Principles, Protocols, and Procedures. Guilford Press.
Il testo fondativo dell’EMDR, utile per comprendere come si struttura la tecnica e i protocolli applicativi.



mercoledì 9 aprile 2025

A proposito dei cultori della Vegetoterapia e del loro mondo

 

Tecnica psicoterapeutica basata sull'analisi ed elaborazione delle emozioni attraverso il linguaggio del corpo, da quando W. Reich (24 Marzo 1897 3 novembre 1957) ne ha fondato le basi, in tutti questi anni  la vegetoterapia ha guadagnato molte attenzioni e seguaci.

Ciononostante, uno che gli aspetti più preoccupanti di questo movimento, resta il modo in cui i cultori si confrontano tra di loro; modo che rischia di impoverire il metodo stesso e renderlo incapace di un adeguamento culturale costante. Il risultato finale è un grosso rischio: quello che la vegetoterapia possa rivelarsi inadeguata, perché impreparata e quindi incapace ed inefficace, nei confronti delle problematiche emergenti dall’evoluzione culturale.

Inquietante è il fatto che tutto il movimento anziché arricchirsi il più delle volte si carica di conflitti e polemiche.

Viene da chiedersi come mai questo tipo di deriva in un movimento che si dice ‘cultore di moderazione’ (vedi la comune voce: la bioenergetica cerca di rompere la corazza, la vegetoterapia di scioglierla).



Differenze


Ogni disciplina terapeutica ha le sue sfumature e i suoi fondamenti teorici su quali si basa la lettura della personalità umana e la sua evoluzione. A ben vedere in vegetoterapia queste basi sono rimaste sempre le stesse fin da quando Reich ne ha delineato i riferimenti dell’evoluzione organismica, culturale e sociale. Ciò che cambia nei cultori succedutisi sono le diverse considerazioni circa l'applicazione  pratica degli strumenti interpretativi e del modo in cui gli acting (agiti comportamentali) vanno condotti e realizzati. Inoltre, ad ogni nuova generazione di terapeuti, gli apporti di altre discipline fanno capolino per ibridare gli schemi tradizionali della vegetoterapia e renderla più attuale. Senza legittimazione al confronto con i terapeuti collaudati e più anziani, i giovani terapeuti devono decidere da soli come integrare i nuovi approcci.

Quello che lascia perplessi in questo movimento è l'incapacità di vedere che la mancanza di un costante confronto costruttivo (interno ed esterno) rischia di ostacolare il progresso della stessa teoria. L’impedimento del dibattito, anche solo tecnico ed operativo, intralcia l’evoluzione di tutto il complesso sistema formativo, esplicativo, didattico e funzionale che così rischia di diventare obsoleto.


La presunzione


Stranamente è proprio nel campo della salute e del benessere mentale che il concetto di narcisismo professionale diventa più rilevante. Il bisogno di affermarsi come terapeuti esperti e capaci, può spingere molti psicoterapeuti, e vegetoterapeuti nel nostro caso, a negare la validità delle teorie altrui fino al punto da non vedere, e spesso convincersi dell’inutilità o della mancanza di funzionalità, delle modifiche perseguite individualmente dai singoli terapeuti anche quando questi appartengono alla propria formazione. Questo implicito narcisismo può creare una barriera anche solo all'ascolto delle modalità alternative che possono darsi nell'applicazione pratica degli acting.

Un esempio, forse nemmeno tra i più validi perché il suo approccio si diversifica anche negli intenti terapeutici, lo si può trarre da Lowen che è stato allievo di Reich: nell’ideare la bioenergetica, che semplicemente impiega gli stessi acting della vegetoterapia ma in condizione fisica diversa (in piedi piuttosto che distesi su un lettino), ha elaborato un diverso sistema di impiego degli acting piuttosto che suggerirne una modifica nell’ambito della stessa procedura.

In definitiva cosa costerebbe a noi oggi discutere per esempio sulla bontà di un acting fatto da disteso oppure da seduto? Sapere che nello svolgimento di un acting oculare c’è chi usa una ‘penna luminosa, magari di un certo colore piuttosto che di un altro e che altri ancora usano le dita della propria mano (del terapeuta) piuttosto che una lucina come oggetto da seguire? Confrontarsi non sarebbe altro che un arricchimento individuale e professionale.


La paura della critiche


Singolarmente, proprio nell’ambiente culturale dove maggiormente si discute di salute mentale, si riscontrano più facilmente emergenze di conflitti emozionali. Che poi diventano relazionali per la difficoltà ad accettare la critica. 

Confrontarsi con la divergenza rispetto al proprio punto di vista, rispetto all’applicazione teorico – pratica della tecnica, maturata negli anni di formazione e di sperimentazione personale e soggettiva, diventa difficile quando non si è cresciuti e maturati confrontandosi con costanza ed onestà professionale. Confrontarsi con opinioni diverse quando non si è abituati al dinamismo evolutivo, viene vissuto un pò come un mettere in discussione le proprie competenze e credibilità e, implicitamente, la propria identità professionale. Non ci si accorge che così facendo si rischia di restare inconsapevoli del fatto che questa identità professionale, che non ha opportunità di crescita ed emanciparsi in confronti dialettici, rischia di rimanere involuta e bloccata nella difesa delle proprie posizioni.


La polarizzazione


Lo specchio sociale in cui attualmente si vive è quello di una riproduzione, nei piccoli gruppi associativi, della società contemporanea in cui è crescente una tendenza a polarizzare le posizioni e i punti di vista che sono poi accentuati dall'uso dei social media. Questo atteggiamento piuttosto globale è polarizzante e può riflettersi anche nel mondo della vegetoterapia. Le opinioni possono diventare bipolari ed estremizzarsi in atteggiamento specifici piuttosto che guardare ad un ventaglio di possibilità differenziate per paziente o per preferenza personale (del terapeuta).

In queste condizioni, e invece di privilegiare il dialogo, si tende a creare “tributi” di seguaci e di persone unidirezionali che, invece di volgersi al dialogo, rischiano di vedere il mondo in termini di bianco e nero piuttosto che esplorarne le sfumature. Queste posizioni alimentano ancora di più il conflitto piuttosto che smussarne gli spigoli e tendere ad una integrazione reciproca delle posizioni.

Da queste posizioni l’aspetto identitario riappare mostrando quanta vulnerabilità ci sia al cospetto anche della visibilità. Una volta formatisi questa vulnerabilità, saranno quegli stessi terapeuti che vivranno come minaccia alla loro reputazione e alla loro visibilità qualsiasi forma di confronto. Inconsapevolmente, il focus si sposta dalla crescita personale e professionale al riconoscimento e ogni critica verrà interpretata come una minaccia all'"essere" terapeuta.


Conclusione


Come gli anni trascorsi hanno dimostrato, il mondo della vegetoterapia è ricco di potenziale di crescita e innovazione al punto che molti spunti, come quelli relativi ai movimenti oculari, alla corazza caratteriale, al costante rimando alla complessità organismica (comprendente il mondo corporeo, cognitivo ed emotivo) sono stati adoperati con evidenti vantaggi da altri epistemi.

È evidente allora che, tra tutti coloro che si autodichiarano reichiani (i cultori della vegetoterapia), è mancato il dialogo e che questo ha ostacolato notevolmente l’integrazione ostacolandone il progresso o rendendolo monodirezionale.

Gli anni che stiamo vivendo forse sono proprio quelli in cui prendere consapevolezza dell’isolamento culturale autoprodotto da una chiusura al confronto e alla valorizzazione di prospettive diverse dalle proprie convinzioni. Alla fine potrebbe essere proprio questo isolamento a far emergere la possibilità del dialogo, rispettoso e aperto, capace di costruire un campo di crescita personale e collettiva della vegetoterapia? In questo periodo storico, reso ancora più difficile dalle guerre e dai conflitti geopolitici, riusciremo (noi reichiani) a fornire la società degli strumenti di cui siamo portatori per una comprensione (anche della vegetoterapia) più globale ed equilibrata?

Giuseppe Ciardiello




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