La
violenza di genere come conseguenza del binarismo di genere
Marcello mannella
I fatti di cronaca
raccontano pressoché quotidianamente delle violenze e delle sofferenze, spesso
delle morti e dei suicidi, di donne e di quanti – gay, lesbiche, transgender, intersessuali
– vivono ed esprimono diversamente la propria identità di genere. In famiglia,
a scuola, nei luoghi di lavoro, in ogni ambito sociale, queste dimensioni del
vivere non riguardano innanzitutto la sfera privata della persona, ma hanno
un’immediata valenza sociale, stimolano atteggiamenti emozionali spesso
irrazionali, risposte cariche di significati politici.
Per comprendere fino in fondo la natura di
questo fenomeno è necessario sgombrare fin da subito lo spazio di discussione
dai convincimenti propri del senso comune che quanto di doloroso accade sia
conseguenza della persistenza di radicati pregiudizi e distorsioni culturali
che irrompono accidentalmente e dall’esterno nello spazio altrimenti regolato
delle relazioni di genere. Occorre piuttosto considerare, alla luce
dell’indagine storica, che la realtà del genere in occidente è sempre stata un
fenomeno eminentemente politico, espressione di pratiche discorsive[2]
che esprimono particolari rapporti di potere e che finiscono col configurare in
termini di sopraffazione i rapporti fra gli individui.
Innanzitutto,
desterà meraviglia scoprire che la convinzione, per noi scontata, che l’umanità
si componga di uomini e di donne, è una
convinzione culturale recente. Nel mondo antico, greco e latino, in età
medioevale e moderna, fino a circa metà del ‘700, ha dominato, infatti, un
discorso di genere che si è organizzato intorno al paradigma del corpo
monosessuale maschile.
Come racconta Laqueur nel suo affascinante L’identità
sessuale in occidente dai greci a Freud[3],
il corpo femminile non era considerato di specie diversa, ma rappresentava la
versione rovesciata e imperfetta di quello maschile. Nei manuali di medicina,
anatomia, ginecologia, la vagina e l’utero erano rappresentati come il pene e
lo scroto rovesciati, rivolti verso l’interno. Per Aristotele, il maggiore
scienziato dell’antichità, non esistevano funzioni fisiologiche specificamente
femminili. Le mestruazioni accadevano per espellere l’eccedenza delle sostanze
nutritive causata dal freddo del corpo femminile e avevano l’equivalente
maschile nelle scariche emorroidali e nelle emorragie nasali. Era addirittura
possibile rintracciare nel corpo maschile la funzione della lattazione: dopo la
pubertà, mungendoli sistematicamente
anche gli uomini possono produrre un po’ di latte.
Il filosofo differenziava il genere maschile
da quello femminile non in riferimento alle caratteristiche anatomiche, ma in
base alle loro differenze spirituali. I maschi incarnavano il principio attivo
spirituale, le femmine il principio della passività materiale. La donna era un
uomo mancato (come si può vedere Aristotele aveva anticipato Freud) in quanto
il freddo del suo corpo, come conseguenza della sua imperfezione spirituale,
non permetteva al sangue mestruale di trasformarsi in sperma. Era la forza
spirituale dello sperma maschile a risvegliare nel processo del concepimento la
materia femminile e a permettere che il sangue mestruale si trasformasse nel
nutrimento necessario allo sviluppo dell’embrione umano.
Ed era proprio la presunta superiorità
spirituale a giustificare il predominio sociale dell’uomo: solo ad egli, in
quanto capace di autodominio e di misura, toccavano i ruoli di attività di
governo, mentre la donna ne era esclusa a causa della sua costitutiva imperfezione
che comportava il prevalere del disordine istintuale e, pertanto,
l’impossibilità di ogni assunzione di responsabilità sociale.
La dominanza del paradigma del corpo
monosessuale maschile è testimoniata dai testi scientifici. Non esistevano
termini specifici per gli organi del corpo femminile: le ovaie erano indicate
con il nome di testicoli; fino al ‘700 mancava un termine tecnico per indicare
la vagina e non si aveva nessuna rappresentazione dello scheletro femminile.
Ciò che più stupisce è che questa ignoranza
del corpo femminile non può essere imputata ad una forma di sapere puramente
speculativa, ma nasceva invece da una pratica scientifica empirica. La
dissezione dei cadaveri era sicuramente praticata in età ellenistica, così come
in età moderna; eppure per gli anatomisti il corpo era esclusivamente maschile.
Tutto ciò, a parere, di Laqueur, testimonia che “la storia della
rappresentazione delle differenze anatomiche tra uomo e donna è dunque straordinariamente indipendente
dalle strutture effettive di questi organi, e anche da ciò che di essi si
sapeva. Era l’ideologia e non la precisione delle osservazioni, a determinare
in qual modo venivano visti, e quali differenze contavano e quali no.”[4]
E’ interessante a tal proposito sottolineare
che quando nel 1559 Realdo Colombo individuò l’esistenza della clitoride e la
considerò come la sede del piacere femminile, ciò non suscitò lo scalpore che
avrebbe dovuto far sorgere. Tale scoperta, infatti, si presentava con la forza
di una decisiva anomalia rispetto al paradigma del corpo monosessuale maschile
che indicava nella vagina l’equivalente rovesciato del pene. Significativamente
la questione fu sottaciuta; il corpo femminile che aveva provato a testimoniare
la propria esistenza fu nuovamente rimosso.
Queste vicende sono indicative del modo di
procedere dell’attività scientifica ed evidenziano che il contesto della
scoperta risente del più generale contesto culturale e politico. Ancora più
sorprendente è il fatto che, improvvisamente, intorno alla metà del ‘700, si
affermi un nuovo paradigma del corpo umano improntato ora ad un radicale
dimorfismo. Accadde, insomma, in quel periodo, ciò che Kuhn ha definito una rottura rivoluzionaria[5]
e si assiste, pertanto, all’emergere di una nuova organizzazione gestaltica
della percezione. Pur guardando nella stessa direzione, gli scienziati vedono
qualcosa di completamente diverso: dove prima percepivano identità ora vedono
differenze.
Il modello del corpo monosessuale viene
pertanto abbandonato e al suo posto subentra quello del corpo bisessuale
caratterizzato da un radicale dimorfismo. L’anatomia e la fisiologia maschile e
femminile cominciarono ad essere rappresentate come assolutamente opposte. Nel
nuovo modello non erano più le differenze spirituali a determinare la diversa
posizione sociale per uomini e donne, ma l’inevitabile conseguenza della
diversità dei corpi. Gli uomini, per attitudine naturale, erano dinamici,
attivi, rivolti a competere e imporsi nel mondo sociale; le donne, invece,
erano naturalmente passive, anatomicamente predisposte alla cura della prole,
alla funzione di sostegno, al governo delle faccende domestiche.
E se
nel modello del corpo monosessuale l’uomo era capace di auto dominio e misura,
ora il suo naturale dinamismo comportava una prorompente sessualità, mentre la
donna era descritta come innocente e angelicata. Pertanto se ancora nel ‘600 le ostetriche erano prodighe di consigli alle donne per raggiungere il piacere e
favorire così il concepimento, fra il ‘700 e l’ ‘800 questa convinzione fu
lasciata cadere. Nel nuovo paradigma la donna diventava un essere apassionale e
l’orgasmo era considerato una prerogativa esclusivamente maschile.
Stupisce
ancora, come sottolinea Laqueur, che l’affermazione del nuovo paradigma accada
nonostante proprio in quel tempo si verificasse l’importante scoperta
scientifica dei foglietti embrionali che affermava la differenziazione dei
sessi da un embrione morfologicamente androgino e che sembrava pertanto
confermare l’antico modello del corpo monosessuale.
Da
questa breve disamina storica si evincono due importanti considerazioni: la
prima è che la realtà del genere non può pretendere nessuna naturalità come
conseguenza della stabilità biologica del corpo; la seconda è che ogni discorso
di genere, almeno in occidente, ha sempre comportato una diseguale
distribuzione del potere.
Nel nostro tempo, con l’affermazione di
molteplici stili di vita sessuale, si assiste alla copiosa produzione delle
indagini critiche sul genere. Gay, lesbiche, intersessuali, transgender, drag,
ecc., infatti, lottano per il loro riconoscimento. Rifiutata, pertanto, la
considerazione della sessualità come dato naturale, gli studi di genere hanno
portano l’attenzione, sulla scorta di quanto sostenuto da Foucault nel suo La volontà di sapere[6],
alle pratiche sociali attraverso cui i corpi vengono disciplinati ed
assoggettati.
Già il femminismo
degli anni ’60 del novecento aveva contestato la credenza del carattere
naturale dei generi; l’essere donna non aveva niente a che fare con la sua
configurazione anatomica e la sua condizione di subalternità era piuttosto il
frutto delle pratiche discorsive maschiliste.
Il femminismo storico, però, pur rifiutando la
realtà naturale dei generi, si muoveva ancora nell’orizzonte di pensiero del
paradigma eterosessuale. Non così il femminismo radicale degli anni ’80 che lo ha
rifiutato, permettendo la costituzione di uno spazio critico comune fra i
movimenti di liberazione della donna e di quelli dei gay, delle lesbiche, dei
transgender, degli intersessuali, di quanti insomma lottano per il riconoscimento
della loro identità. Ed è in questo spazio riflessivo comune che hanno avuto
origine i cosiddetti queer studies[7].
Fra i contributi più significativi spicca
sicuramente la riflessione della Butler autrice di due importanti opere, Corpi che contano[8] e
Scambi di genere[9].
La Butler sostiene che le pratiche sociali sono organizzate intorno alla
dominanza del paradigma eterosessuale. E’ tale paradigma a suo parere a creare
quegli effetti di verità che
dispongono e perpetuano il diverso potere fra uomini e donne e che, insieme,
determina il rifiuto e l’abiezione per le identità di genere e sessuali diverse.
Secondo la Butler il genere ha un carattere performativo, nel senso che è il
prodotto della ripetizione reiterata delle pratiche sociali che creano
l’illusione retrospettiva che il genere sia la proiezione culturale della
naturalità sessuata del corpo. “Il genere non dovrebbe essere concepito
semplicemente come l’iscrizione culturale di significato su un sesso dato in
precedenza. […] Il genere non sta dunque alla cultura come il sesso sta alla
natura; il genere è anche il mezzo discorsivo/culturale attraverso il quale la
‘natura sessuata’ o un ‘sesso naturale’ vengono prodotti o creati come
‘prediscorsivi’, come precedenti alla cultura, come superficie politicamente
neutra su cui la cultura agisce”[10].
L’eterosessualità normativa costringe gli
individui a riconoscersi esclusivamente
come uomini o come donne, escludendo ogni possibilità di identità di genere
intermedie o diverse. Non è affatto vero come sosteneva Freud, che noi scopriamo
la diversità sessuale e assumiamo un’identità di genere nella fase
fallico-genitale. E’ vero piuttosto che per ognuno di noi questo processo
inizia già nella vita intrauterina o, almeno, al momento della nascita.
In base alla configurazione dei genitali
veniamo, infatti, assegnati alle due diverse e naturali tipologie sessuali, e conseguentemente sognati, nominati,
toccati, guardati, agghindati, pensati e avviati attraverso gesti, espressioni,
aspettative, richieste, verso l’assunzione di una determinata identità di
genere. Ognuno di noi imparerà a pensarsi come un lui o una lei; imparerà a
esprimere determinati impulsi, emozioni, desideri sessuali, e, perciò stesso, a
disconoscere quelli che non si armonizzano con l’identità di genere che siamo
costretti ad assumere. E tutto ciò accade – e questo è estremamente importante
ai fini del nostro discorso sulla violenza di genere – non soltanto apprendendo
che cosa è maschile e cosa femminile, ma anche introiettando il rifiuto e il
conflitto- che devono essere costantemente rinnovati per essere efficaci - col
genere che non siamo e che non possiamo essere.
L’altro genere diviene pertanto,
inconsciamente, l’archetipo del diverso che devo temere e distanziare, forse
proprio, e a maggior ragione, perché avevo un tempo desiderato essere.
Che il discorso di
genere sia costitutivamente intriso di violenza appare palese anche dalla
pratica della riassegnazione chirurgica che riguarda quegli individui – il loro
numero non è affatto esiguo come solitamente si pensa[11]
- che nascono con organi genitali
intermedi. Tale pratica è diffusa in molti paesi.
Il retroterra
culturale che guida i medici nella loro attività è il convincimento che
esistano solo due sessi e generi distinti e che pertanto ne va della salute dei
nuovi nati ristabilire l’ordine anatomico naturale. I criteri, poi, per
decidere della riassegnazione sessuale
sono maschilisti. Ricostruire una vagina è più semplice che ricostruire
un pene perché la prima è caratterizzata dalla funzione passiva di ricevere il
pene, mentre per quest’ultimo si richiede la capacità di provare sensazioni e
partecipare attivamente all’esperienza del piacere sessuale. Oppure sono
puramente quantitativi: il pene non deve misurare meno di 2,5 cm, mentre la
clitoride non più di 0,9 cm.[12]
Le testimonianze degli intersessuali adulti
denunciano la profonda violenza subita e la dolorosa esperienza della perdita
di integrità della loro persona. Sempre più numerose sono oggi nel mondo le
associazioni che si battono contro la pratica della riassegnazione chirurgica
in età infantile, assimilandola alla pratica della mutilazione dei genitali
femminili presente in tante parti del mondo, che pure è stigmatizzata dal
civile mondo occidentale.
Oggi stiamo vivendo una nuova rivoluzione
sessuale. La riflessione, infatti, di quanti si sentono eccentrici rispetto
alla normatività del paradigma eterosessuale sta determinando una profonda
rivoluzione dei costumi e faticosamente si sta affermando il nuovo modello del “continuismo
sessuale”[13]
che rifiuta la semplicistica differenziazione dell’umanità in uomini e donne e
giudica che essa sia piuttosto costituita da un’infinita molteplicità di identità
sessuali. L’allineamento normativo fra sesso, genere e sessualità è decisamente rifiutato; fra i tre termini non
c’è un nesso unico e necessario.
Si sostiene che l’identità di genere è una
costruzione personale e che per sessualità, senza rifiutarne la dimensione
biologica, debba intendersi ciò che scaturisce dalla propria storia, dalla
personale esperienza. La sessualità è considerata, infatti, una complessa
esperienza emotiva, diversa in ciascun individuo, conseguenza delle nostre
relazioni primarie.
La tendenza è oggi, pertanto, quella di
affermare la morte del genere (trans gender: andare al di là del genere). Si
guardano diversamente i corpi maschile e femminile e ci si sorprende a
considerare che nonostante essi presentino soprattutto elementi di similarità –
cromosomica, ormonale, neurofisiologica, anatomica - siano invece visti come opposti. La
difficoltà a porre l’accento sulla loro similarità dipende dal background
culturale dell’occidente che ha sempre connotato di significati politici le
relazioni fra i generi e che conseguentemente ha definito i corpi in termini di
diversità al fine di giustificare la subordinazione dell’uno all’altro.
Sulla base di
quanto fin qui è stato detto, proviamo ora a comprendere la sconcertante
esplosione di violenza di genere (verso le donne, verso gli omosessuali, verso
i trans) che caratterizza in maniera esasperata il nostro paese (e non solo)
nel nostro tempo.
Sia chiaro, la violenza di genere è sempre
esistita, anche se diverse sono state le sue motivazioni e le sue espressioni. Rispetto al passato siamo oggi in
presenza di un fatto epocale: la crisi profonda e irreversibile del paradigma
del binarismo di genere. Ci troviamo in un contesto sociale caratterizzato,
come direbbe Prigogine, da un aumento di disordine – la presenza di molteplici
stili sessuali, le diverse identità di genere, la rivoluzione delle relazioni fra
i sessi e la ridiscussione dei loro ruoli, la nascita delle nuove famiglie - e
in prossimità pertanto di un punto di svolta.
Il nostro tempo
incarna un momento di passaggio e sembra evidente che necessiti
dell’affermazione di un nuovo accoppiamento strutturale fra gli individui e
l’ambiente sociale e culturale. Da qui le contraddizioni e le incertezze, la
coesistenza di nuovo e di vecchio, di aperture e di chiusure. Da qui anche,
purtroppo, l’esasperazione della violenza di genere.
L’identità di
genere riguarda, infatti, l’identità profonda, viscerale, di ogni individuo e
nel nostro tempo essa, come abbiamo visto, è sottoposta ad una continua
sollecitazione. Ora, se a questa condizione di stress si sommano le conseguenze
drammatiche della crisi economica e valoriale in atto nel mondo occidentale che
comportano il deteriorarsi della qualità dei rapporti sociali e umani, che
frequentemente esitano nella perdita del posto di lavoro e della identità sociale, nella frustrazione di ogni
progetto esistenziale, ecco che allora il quadro è perfettamente compiuto.
E’ pertanto plausibile che in un tale contesto
storico-sociale si sia – specialmente quanti culturalmente e psicologicamente
più deboli – maggiormente esposti al rischio di non riuscire a reggere la messa
in discussione (da parte delle donne con la loro indipendenza economica, di
giudizio e sessuale, dalla realtà sempre più manifesta dei diversi stili sessuali e identità di genere)
dell’ultima certezza cui aggrapparsi: l’identità di genere. Ed è plausibile che infine, completamente
preda di un’angoscia di morte, si possa esprimere il proprio malessere in una
violenza cieca e distruttiva verso chi con la sua diversità sembra attestare
definitivamente, suo malgrado, il naufragio della nostra esistenza.
[1]
Per binarismo di genere si intende il convincimento dominante nel senso comune
dell’esistenza naturale e normativa di due generi (l’uomo e la donna), senza
possibilità di identità intermedie. La normatività dei generi appare fondata sulla realtà sessuata del
corpo; da quest’ultima discenderebbe parimenti e inevitabilmente la modalità
naturale della sessualità eterosessuale. La pratica discorsiva del binarismo di
genere realizza pertanto un allineamento normativo fra sesso, genere e
sessualità.
[2]
L’espressione pratica discorsiva
rimanda alla riflessione archeologica di Foucault, a quella attività di ricerca
cioè volta a portare alla luce le strutture
epistemiche, le coordinate teoretiche, che in una determinata epoca
demarcano lo spazio concettuale entro cui soltanto è possibile distinguere il
vero dal falso, il lecito dall’illecito e che attraverso l’insieme dei
dispositivi disciplinari controllano e assoggettano i corpi determinando le
forme della soggettività. M.
Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971.
[3]
T. Laqueur, L’identità sessuale in occidente dai greci a Freud, Laterza, Bari,
1992.
[4]
Ibidem, p. 117.
[5]
T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1970.
[6]
M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1976.
[7]
Il termine queer – strano, obliquo, finocchio - è nato come epiteto
dispregiativo nei confronti delle forme di sessualità diversa da quella
eterosessuale. Il movimento dei gay e delle lesbiche lo ha fatto
provocatoriamente proprio: queer è il terrificante che smaschera la pretesa
naturalità dell’eterosessualità.
[8]
J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano, 1996.
[9]
J. Butler, Scambi di genere, Sansoni, Firenze, 2004.
[10]
Scambi di genere, op. cit. p. 11.
[11]
“ Un bambino ogni 2000 nasce con genitali ambigui per una dozzina di ragioni
diverse. Esistono negli Stati Uniti più di 2000 reparti di chirurgia destinati
ad effettuare ogni anno rassegnazioni chirurgiche di sesso.” V. Baird, Le
diversità sessuali, Carocci, Roma, 2003, p. 111.
[12]
Ibidem, p. 113.
[13]
M. Rothblat, L’apartheid del sesso, Il Saggiatore, Milano,1997.
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