Proseguendo il discorso introdotto
dall’ultimo articolo di questo blog (Acting, sottoacting, acting di passaggio e dimensioni psicologiche) forse
è necessario fornire una definizione delle Dimensioni
Psicologiche che, per noi reichiani, non può che avvalersi di un taglio
psicofisiologico:
Definizione: “… segnaliamo che l’esperienza percettiva costituisce un elemento
portante per lo sviluppo della dimensione psicologica poiché la
rappresentazione (prima ancora di ogni interpretazione e riconoscimento) è alla
base della costruzione del significato. …segnaliamo che l’unità funzionale non
è soltanto il neurone, ma anche i circuiti neuromuscolari, neuro ghiandolari
(neuro viscerali e neuroendocrini). Queste sono dunque le strutture funzionali
portanti da cui nasce la dimensione psicologica.” (Ruggieri, V. &
coll., “Struttura dell’Io tra
soggettività e fisiologia corporea”, EUR, 2011). Quindi, se ne può dedurre
che a) le DP sono rappresentazioni mentali
che b) prendono avvio da stimoli
sensoriali.
Se Freud pensava che prima o poi
tutti i processi mentali sarebbero stati spiegati dalla biologia, forse non è
azzardato dire che Reich è sempre stato più vicino alla fisiologia che alla
psicoanalisi. Se questi accostamenti sono ritenuti validi allora lo sforzo di noi
reichiani dovrebbe essere quello di cercare continui raccordi tra la fisiologia
dell’organismo (processi cerebrali) e i processi mentali che l’accompagnano.
È cercando di restare fedeli a
questa ipotesi operativa, con un taglio schiettamente (vegeto) terapeutico
piuttosto che analitico, che possiamo leggere gli eventi umani come colorati
dalle dimensioni psicologiche (DP) che, corrispondenti ai vissuti personali,
sono prodotti riconducibili ai processi mentali.
Come tutti gli abiti che,
indossati in circostanze specifiche, svolgono funzioni specifiche, le DP danno
forma e colore alle comunicazioni relazionali e corrispondono ai vissuti che
accompagnano le posizioni e gli atteggiamenti del corpo (posture,
atteggiamenti, toni di voce, intercalari, ritmi, prosodie, ecc.). Si può anche
dire che, quando le persone vivono specifiche DP, le manifestano attraverso le
proprie modalità comunicative, verbali e non verbali.
Volendo restare nella metafora
dell’abito, le DP corrispondono ai modi personali di porsi in relazione e possono
essere viste come singoli capi di abbigliamento indossati a seconda della
situazione. Questa discrezionalità relazionale rende le DP individuabili solo
mentre si svolge la relazione perché colorano sia il carattere delle persone, sia
il carattere della relazione sia l’eventuale disturbo portato (specificandolo
nella sua modalità relazionale).
Se ne potrebbe concludere che caratteristiche
delle DP siano anche: a) l’ordine con cui si rivelano che è specifico b) della persona per c) le relazioni con cui si manifesta d) quel disturbo particolare.
Per esempio nel disturbo panico
le dimensioni normalmente indossate,
per rappresentare le difficoltà relazionali, sono quelle della fiducia, dell’appoggio,
dell’equilibrio, dell’integrazione, della rabbia e del rilassamento. In queste
dimensioni le persone si destreggiano cercando di realizzare performance comportamentali
(fisiche e mentali) sempre più definite e affidabili. Le DP, usate per
risolvere un’antica difficoltà relazionale, vengono agite e presentate come capi
di abbigliamento che ogni carattere dispone in un ordine particolare a seconda
della relazione e del momento storico-evolutivo che la relazione sta
attraversando.
Perciò si dispiegheranno anche
nella relazione analitica e/o terapeutica.
Siccome tutti i caratteri possono
manifestare il disturbo panico, o qualunque altro disturbo, lo scopo terapeutico
sarà quello di capire il motivo per cui quel carattere, in quel momento di
quella relazione, decida di indossare i capi del proprio abbigliamento in quel
modo e con quella progressione.
Questa comprensione potrebbe farsi
guida della terapia stessa e, nel contempo, aiutare il paziente ad aprire gli occhi sui propri specifici
modi di essere in relazione. Divenendo
scopo condiviso, l’individuazione e la modifica delle DP renderebbe possibile
cambiare i capi di abbigliamento e,
alla fine, magari anche l’abito.
Pur essendo vero che ogni
psicoterapia preseleziona i pazienti che ad essa si rivolgono, nel senso che
esiste una fascinazione dettata dall’epistema di riferimento, le operazioni
diagnostiche e terapeutiche che accompagnano l’individuazione e il trattamento delle
DP, non può insistere sull’uso rigido di strategie univoche, anche se queste
sono storicamente standardizzate. Anche preservando la coerenza interna, un
corretto uso della terapia prevede l’impiego strategico più utile ed efficace, in
quel momento, degli strumenti di cui si è in possesso. Ciò vale anche nel caso dovesse
ritenersi necessaria la modifica strumentale delle operazioni alle quali si è
abituati!
Per quanto riguarda la vgt, che
si avvale di acting mirati all’analisi (cercano
di produrre una ri/sperimentazione delle dimensioni arcaiche e intrapersonali),
si tratta d’individuare strategie per trasformare gli acting in esercizi capaci
di agire sulle DP relazionali attuali (si tratta di dare un taglio più terapeutico
che analitico agli acting).
Volendo fare un esempio
esplicativo si riprenda il panico.
Per la prima dimensione, quella
della fiducia, dopo aver verificato il rapporto che la persona coltiva con
questa dimensione (che tipo di credito riserva alle persone e al terapeuta,
quante e quali esperienze di attaccamento/legami ha avuto ed ha ancora, come si
alimentano, come è arrivata in terapia, il grado e le forme di autostima ecc.) si
dovrebbe cercare d’individuare la strategia maggiormente efficace nel proprio
repertorio vegetoterapeutico.
In vgt la fiducia è una
dimensione che si realizza fin dai primi incontri per mezzo del dialogo tonico.
Qualunque operazione, gesto o
comportamento (verbale e non verbale) è agito in sintonia con la vibrazione che
ispira dal paziente a tutti i livelli. Si cerca di intuire quale tono di voce usare,
quali parole adottare e quale ritmo può essere più congeniale alla particolare
architettura mentale presentata da quella persona in quel momento. Questo atteggiamento
è conservato anche nel passaggio al contatto corporeo. Nel contatto terapeutico
la fiducia si associa alla dimensione dell’appoggio e ciò, si potrebbe dire, vale
per tutti i tipi di psicoterapia al punto che assume un valore sia reale sia
metaforico. L’appoggio consiste nella capacità della persona di appoggiarsi (fisicamente e mentalmente) al
terapeuta. Una volta consolidata quest’esperienza, la dimensione corrispondente
può essere trasferita (e transferita) su di sé (introiettata e incorporata).
Un esempio pratico potrebbe consistere
nell’occuparsi delle estremità del corpo, piedi e mani.
Considerando il paziente disteso
sul lettino con le ginocchia sollevate, i vissuti possono essere indagati con
una puntuale e ripetuta ricognizione effettuata prima e dopo la realizzazione
di: un massaggio (ai piedi e/o alle mani), un gioco di ridefinizione dei
confini (immaginando di percorrere con una matita il bordo del piede per
sentirne l’orma lasciata sul materasso; il terapeuta potrebbe percorrerne il
bordo col proprio dito), esercitando una pressione sul ginocchio premendo bene
il piede sul materasso, così da far sentire l’impronta e indagandone la
consistenza; si può proporre il sollevamento delle gambe, stando distesi sul
materasso, tenendo i piedi sollevati per aria con la punta rivolta verso il
viso e, mentre si respira, focalizzare l’attenzione in settori e livelli (corporei
e mentali) di competenza diversa (per inciso, questa posizione è l’acting di
vgt corrispondente al grounding).
Un altro modo per contattare
l’appoggio/fiducia è il sostegno della nuca (per una persona sia in posizione supina
che eretta). Le stesse sensazioni di calore e fermezza, comunicati dalle mani alla
nuca, possono essere evocate anche da una mano sul torace che accompagna il
respiro; o anche appoggiando la mano sul collo, sotto la nuca, accompagnando il
movimento respiratorio, di stiramento e incurvamento. Il collo si allunga nel
momento dell’espirazione e incurva leggermente accompagnando il naturale ogni
atto respiratorio. Analogamente si possono accompagnare i movimenti respiratori
appoggiando una mano tra le scapole della persona. Questa operazione,
estremamente rispettosa ma molto sostenitrice,
può essere attuata sia con le persone in posizione distesa, sia prona che in
posizione eretta.
Se la posizione supina non è
realizzabile (per motivi che, almeno all’inizio della terapia non si possono
conoscere, e pur ipotizzando che possano essere riconducibili alla mancanza di
fiducia, a problemi di contatto derivanti da traumi affettivi e relazionali
ecc.), non essendo pensabile un’imposizione formale, sarà necessario procedere ideando
modifiche strutturali degli acting che, pur lasciando invariati i presupposti
epistemici della vgt, ne prevedano la realizzazione usando un modo diverso da
quello sul lettino (strumento da sempre considerato indispensabile in vgt). In
pratica, avendo come obiettivo l’individuazione e la modifica delle DP, queste si
possono individuare, indagare, consolidare e trasferire anche con il paziente
in posizione eretta, utilizzando le stesse tecniche usate col paziente in
posizione supina.
Inoltre, stando in posizione
eretta, la persona può più facilmente essere indotta a sperimentare le DP
relative all’autoappoggio (stando sui propri piedi) e più agevolmente potrà
trasformarle in competenze personali.
Insomma, considerare la
possibilità di lavorare per DP, significa cominciare a pensare alla possibilità
di adattare la vgt ai sintomi e alle coloriture personali date ad ogni disturbo.
Da questo punto di vista sembra
emergere l’interessante idea che l’attenzione alle DP potrebbe stimolare un fruttuoso
dibattito, dentro e fuori la vgt, circa l’uso terapeutico degli acting tradizionalmente
usati in senso esclusivamente analitico.
Giuseppe Ciardiello
Giuseppe Ciardiello