A proposito della nostra epoca di tante tecniche psicoterapeutiche
La
scoperta di tante tecniche psicoterapeutiche derivanti dal buddhismo (MBSR,
Mindfulness, Insight Dialogue, Mindfulness relazionale ecc.) e dal cognitivismo
(EMDR, Terapia Metacognitiva, Therapy Remediation, Emotional Freedom
Technicques ecc.) ripropongono un tema delicato per gli psicoterapeuti e
psicologi.
Lo
psicoterapeuta è un professionista che, alla pari di altri, che si occupano di
salute o è un particolare tipo di
professionista? Cioè a dire, i medici, gli insegnanti, i badanti, gli
assistenti sociali necessitano di tanta professionalità e di apprendere tecniche
specifiche ma a nessuno di loro è chiesto un ulteriore impegno che affianchi la
professione, vale a dire di essere altruisti, compassionevoli, caritatevoli e
di fare prestazioni gratuite. Tra tutti i professionisti gli psicologi
continuano ad essere visti come quelli che devono mostrarsi amici al punto che anche
la compassione oggi è promossa a tecnica psicoterapeutica.
Dovendo
far diventare danaro la sensibilità, il sostegno e la compassione, diventa
allora legittimo per questi professionisti imporsi d’imparare tutte le tecniche
che emergono sotto la spinta dei cambiamenti culturali. Le molteplici offerte fanni
il pari con il dubbio d’essere capaci di rapportarsi alla mutevole realtà forse
perché mancanti della chiave vincente che, fantasticamente, può risiedere
nell’ultima tecnica psicoterapeutica, magari proveniente dall’America. E
un’altra domanda è se è veramente necessario, per essere un buon terapeuta,
imparare tante tecniche o se non sia meglio approfondire la propria tecnica e
cercare di perfezionarla con l’esperienza del proprio bagaglio professionale.
È
ovvio che credo sia più valida la seconda opzione perché, immersi come siamo in
un campo culturale, una volta appresa una tecnica cambia con noi nel corso
dell’intera esistenza e tutto ciò che la cultura impone evolutivamente,
l’impone anche alla nostra tecnica. Quindi, sempre che si sia disposti ad
ascoltarla, si abbia fiducia nel proprio operato e si sia sufficientemente
aperti per sperimentare nuove opportunità, la
tecnica in cui ci si è formati è quella che andrebbe coltivata e
perfezionata.
Anche
la Vegetoterapia (Vgt), in quanto tecnica, ha sofferto questi aspetti.
Nata
dall’attenzione selettiva al corpo nell’ambito della psicoanalisi, e ancora
carica di romanticismo seppure all’ombra dell’illuminismo, in quel luogo corporeo
la Vgt ha cercato le dimensioni sovraindividuali e spirituali che voleva
trovare. L’energia orgonica, individuata da Reich, testimonia bisogni filosofici
assolutistici che mettono in comunicazione l’uomo col cosmo. Questa esigenza ha
spostato l’attenzione dall’individuale al sovraindividuale e ideando una
relazione cosmica ha baipassato la relazione umana e lo scambio intersoggettivo.
Il
recupero degli aspetti cognitivi e relazionali nell’ambito della Vgt sarebbe un
aspetto importante dell’aggiornamento tecnico e operativo di questa disciplina
terapeutica. Oggi si sa che non è sufficiente la semplice somministrazione
degli acting per arrivare alla scoperta di traumi più o meno complessi o per
stimolare, nelle persone che vi si sottopongono, il racconto spontaneo delle
esperienze ricordate e farne una nuova edizione.
Allo
stesso modo, la sudditanza alla psicoanalisi ha impedito alla Vgt di avvalersi
dei propri costrutti attaccandosi ai valori analitici anche quando quella ha
cercato nella relazione nuove dinamiche psichiche. Così, anche quando la
psicoanalisi si è fatta ‘relazionale’, la Vgt è rimasta fissata nell’approccio
intrasoggettivo lasciando lo sguardo immobile sul soggetto terapeutico e la
diagnosi esasperatamente energetica. Le cause dei blocchi e della cattiva
circolazione energetica ha continuato ad essere addebitata alle contrazioni
fisiche personali e si è sempre evitato di cercare nelle dinamiche relazionali
i motivi del disagio. Così anche le interazioni, verbali e non verbali tra
diversi interlocutori, sono ancora oggi ricondotte ad espressioni caratteriali
piuttosto che occasionali o contestuali.
In
tal caso le distonie, le disfunzioni e le nevrosi restano relative al singolo.
Uno
sguardo al passato, agli scritti di egregi autori che hanno preceduto questi
nostri anni cmplessi, penso sia necessario e opportuno anche perché si
rispolveri il bisogno del cambiamento.
Per
esempio ‘l’interpretazione dei sogni con l’ausilio di acting di Vgt’ dimostra
l’effettiva possibilità di adeguare uno strumento tecnico tradizionale, come la
Vgt appunto, alle nuove esigenze emotive e culturali dell’epoca moderna. In
questo modo non c’è bisogno di rifarsi al passato né è necessario una
conoscenza dettagliata dei simboli e delle dinamiche analitiche perché il
soggetto è invitato a fare tutto da solo; agire sul suo sogno, con le sue
competenze e conoscenze culturali di gruppo ristretto e allargato dando un
senso personale ai resoconti e alle nuove evenienze. Ciò accresce l’autostima e
la fiducia nella propria creatività.
Lo
sguardo alla propria tecnica terapeutica deve quindi modernizzarsi. La tecnica
appresa nel corso degli studi deve essere arricchita con le proprie esperienze
di vita professionale e personale. È necessario che l’ambito d’intervento si
ampli assumendosi in prima persona il coraggio di ideare operazioni in cui anche
i semplici acting siano usati per aspetti e dimensioni anche relazionali. Così
si pone in primo piano ciò che fin’ora è sfuggito: la cura della fantasia e della
creatività.
Questi
due processi sono gli unici che possono facilitare la comprensione della
comunicazione intercorporea.
Anche
nella semplice comunicazione corporea accade qualcosa, tra i protagonisti, che
va al di là delle parole e della possibilità di essere narrato. Quel qualcosa ha
a che fare sia con l’apprendimento (implicito) sia con il ‘saper come fare’ che
“… comporta una conoscenza simbolica o per immagini che consente a fatti o
esperienze di essere portati alla piena consapevolezza in assenza delle cose
cui rimandano” (p. 365, ‘Le forme di
intersoggettività’ L., Carli e C. Rodini, a cura di, RaffelloCortina, 2008).
È evidente allora la necessità per l’analizzato di riappropriarsi della propria
capacità simbolica e narrativa che è condizione terapeutica, a sua volta,
perché si crei un ‘sapere trasversale’ che rende possibile ripensare alla
propria esperienza decostruendola per poi ricostruirla con nuove possibilità
narrative (p. 30, ‘Lo sguardo e l’azione’,
di O., Rossi, EUR, 2009).
Ogni
strumento terapeutico ha necessità di essere ripensato per essere adeguato ai
tempi e alle esperienze che, formando gli uomini, formano gli stessi strumenti
con cui noi, questi uomini, agiscono percepiscono e costruiscono il reale.
Giuseppe Ciardiello