Genesi, diagnosi
differenziale e terapia del Disturbo da Attacchi di Panico
I
pazienti che manifestano il tipo di disturbi riconducibili al DAP (disturbo da
attacchi di panico), si presentano allo psicologo dopo una serie di richieste
d’aiuto volte sia al medico curante sia ai vari distretti d’emergenza. Questo
perché il disturbo che si manifesta col panico non presenta avvisaglie. Non ci
sono periodi precedenti l’esordio vero e proprio, con sintomi ridotti; a meno
che non vogliamo far risalire all’ansia più o meno grave questo ruolo per così
dire propedeutico. Ma l’ansia accompagna troppi disturbi per potersi
considerare distintiva di qualcuno in particolare. Penso valgano le stesse
considerazioni per la paura. Non è la stessa cosa per l’aggressività espressa o
coartata. La maggior parte delle osservazioni che posso vantare depongono per
una presenza notevole di aggressività non espressa. Mi sono persuaso che
proprio dall’aggressività, che si ha timore di esprimere, derivi il formarsi
della sintomatologia che va sotto il nome di attacchi di panico.
Se
assumiamo questo punto di vista diventa facile capire anche il motivo per cui
la cura di questo disturbo è rivendicata da gruppi di “auto-mutuo-aiuto”;
gruppi autocostituiti che fino a qualche tempo fa nascevano sotto la spinta di
disturbi di tipo sociale e/o relazionale o più di massa cioè per i quali c’è
una maggiore possibilità autodiagnostica e spesso non sono considerati di
competenza degli “strizzacervelli” (alcolisti anonimi e mangiatori anonimi).
Parlando
di “aggressività non espressa” stiamo già parlando di problemi relazionali e
infatti penso che il DAP sia il disturbo della relazione per antonomasia.
Genesi
Ognuno
di noi ha la sensazione di un rapporto di continuità col proprio passato.
Malgrado l’evoluzione e la crescita si attuino per mezzo di processi di
cambiamento, noi siamo convinti d’essere sempre noi stessi. Il nostro senso
d’identità rimane costante. Viene spontaneo chiedersi allora cosa è a rimanere
sempre uguale e a darci questa sensazione di continuità.
Dal
concepimento in poi le cellule del nostro organismo cambiano costantemente e i
vari organi “esitano” solamente in forme strutturalmente definite (Ruggieri,
1997). Ciononostante siamo anche vissuti da un sentimento di “esistere” che
accompagna il realizzarsi delle funzioni dell’organismo che noi siamo. Questo
sentimento ci dà il senso di continuità; è ciò che chiamiamo “il senso di Sé”.
Come il sentimento che accompagna lo svolgersi delle funzioni è riconducibile al
Sé, al sentirsi dell’organismo, l’Io è riconducibile al sentimento che nasce a
seguito della “integrazione delle funzioni” e al suo riconoscimento.
Alla
nascita ogni bambino si ritrova non solo con un corredo genetico completo ma
anche con organi tutti funzionanti. I sistemi più importanti sono già definiti
mentre la maturazione nervosa si completerà solo dopo la nascita, una volta che
l’organismo è calato nell’ambiente in cui dovrà vivere.
La
dotazione organica è notevole ed ogni organo è capace di molte competenze; ciò
che manca all’insieme dell’organismo è la coordinazione degli organi volontari.
Sono presenti alla nascita tutti i riflessi essenziali, da quello rotuleo
all’ammiccamento oculare, a quello prensile, ma il bambino non è ancora capace
di coordinazione e quindi non sa seguire un oggetto con ambedue gli occhi, non
sa portare alla bocca un oggetto e non riconosce la propria mano in
quell’organo che apre e chiude davanti ai suoi occhi.
Per
tutto il periodo della gestazione queste competenze non sono state necessarie.
Diventano importanti dalla nascita e successivamente caratterizzano anche le
modalità relazionali e l’autonomia del nascituro. È da questo momento infatti
che viene chiesto al bambino l’esercizio e il movimento coordinato dei propri
organi e, cosa più importante, gli viene chiesto di farlo in maniera
intenzionale. In questo modo il bambino è indotto a sperimentare-si e impara a
ri-conoscere gli organi, i propri organi.
Il
bambino è indotto a ri-conoscersi (riconoscere sé) da una figura molto
importante e da cui dipende totalmente. Il bambino impara contemporaneamente,
perché ama e dipende da chi ama, che è fatto di organi autonomi e che questi
pezzi di sé possono essere messi insieme a formare uno “schema” più complesso
di comportamento.
È
nella relazione che è promossa “l’intenzione”. L’intenzione si lega e nasce dal
vissuto di piacere che a sua volta deriva dalla ricompensa che il bambino vive
nello scoprire di poter gestire la realtà coordinando il movimento di quelle
parti del proprio organismo. Forse in questo momento scopre anche il senso del
possesso e “dell’essere” padrone…
Insieme
al piacere della scoperta di poter intervenire nella gestione della realtà, che
lo mette in relazione con l’esterno (dal cui confronto nasce l’Io), è possibile
ipotizzare per il bambino un piacere più sottile e profondo che accompagna
questi eventi, ed è quello di scoprirsi capace di una “integrità”, di
un’interezza. Il piacere narcisistico del
“tenersi insieme”.
Quindi
possiamo dire che il bambino “si vive” nei propri organi funzionalmente
separati; anche se maturi, inizialmente questi organi non sono riconosciuti
come “Io”. Poi, nel momento in cui sperimenta la possibilità di comporre
movimenti più complessi e coordinati, scopre sia gli organi sia il piacere di
muoverli insieme in modo integrato e coordinato. Il piacere narcisistico
accompagna la nascita dell’Io.
Il
vissuto che accompagna quest’esperienza sarà un sentimento d’integrazione
progressiva che si accompagna al riconoscimento, per contrasto, del sentimento
iniziale di “non-integrazione”.
Quando
siamo stanchi e provati, la messa in atto di comportamenti più elementari
corrisponde al processo della regressione per mezzo della quale si attua un
recupero energetico. Da questo punto di vista le modalità di funzionamento
regressive, richiedendo meno impegno, sono anche modalità di recupero
energetico. È come se dicessimo che le modalità di funzionamento più mature,
cioè l’Io per poter esistere e le sue funzioni per poter essere mantenute attive,
avessero bisogno di costante attenzione e impegno per cui, quando siamo stanchi
e/o stressati, possiamo “mollare” e lasciare che subentri un modo di funzionare
più semplice.
Del
resto non potrebbe essere diversamente considerando tutto l’organismo un evento
processuale; un processo più evoluto conserva le modalità di funzionamento
degli elementi che lo compongono per cui possiamo dire che vivere ad un certo
livello dell’evoluzione e di organizzazione organismica, richiede l’esistenza
di un certo “lusso energetico”. In alcuni questo livello di organizzazione
energetica viene vissuto come “sforzo”. Non riuscendolo a sostenere si adottano
procedure regressive con la corrispondente adozione di comportamenti precedenti
e più elementari. In questi casi però c’è un rischio; è possibile che il
ritorno regressivo ai comportamenti precedenti riattivi vissuti arcaici di
sviluppo evolutivo che ricordano i momenti di non-integrazione. Il rischio è
che anziché rivivere questa esperienza come il ritorno alla non-integrazione la
si possa vivere come una caduta o un
precipitare nel vissuto della “disintegrazione”.
Diagnosi differenziale
In
genere è difficile legare gli eventi DAP a momenti specifici della propria
storia personale perché evidentemente qualcosa relativo ai “legami” è stato
compromesso ed è diventato difficile il recupero dell’esperienza passata.
Quando parliamo di “esperienza” ci riferiamo sia ai “comportamenti” osservabili
sia alle emozioni e ai sentimenti che li accompagnano. All’inizio della vita
extrauterina le emozioni non sono affinate ed è dal piacere e dal dolore che si
svilupperanno la rabbia, l’odio e l’amore. In questo periodo, quando il bambino
scopre di esistere, lo fa attraverso gli occhi e lo sguardo di coloro che gli
vogliono bene. È attraverso loro che scopre il piacere di esistere e con loro
comincia e rivendicare e a scoprire il piacere (narcisistico) di realizzare le
proprie intenzioni.
In
che modo avvengono queste scoperte? Prima di scoprire la possibilità di
realizzare le proprie intenzioni il bambino scopre, negli occhi della madre, il
“piacere” della realizzazione del suo (di lei) desiderio. All’inizio è lei che
mostra piacere o disappunto indipendentemente dall’intenzionalità del bambino
nel realizzare qualsiasi comportamento. È lei che comincia il gioco di
desiderare che lui realizzi cose. S’instaurano i primi i primi giochi
relazionali in cui il bambino scopre il piacere d’essere chiamato in causa.
Scopre che i richiami, gli appelli sono rivolti a lui e solo a lui ed è il piacere e il desiderio della
intenzionalità, che lui compia delle azioni intenzionali, scritti negli occhi
della madre, che il bambino legge e alla fine cerca e riesce a fare propri.
Ma
come riesce un bambino a fare propria l’emozione materna? Ad incorporarla ed introiettarla?
Una delle competenze ereditate geneticamente dai bambini è quella del
riconoscimento dell’emozione attraverso l’imitazione. Sembra che i bambini
posseggano questa capacità fin dal primo giorno dalla nascita (Goleman, 2004). Secondo alcuni assunti neurofisiologici (Ruggieri, 1997) l’empatia è un sentimento i cui correlati
neurofisiologici sono attivati nell’esperienza imitativa. Forse è questo a
spingere il prof. Ruggieri a definirla “decodificazione imitativa”. Allora
forse, se l’empatia è una funzione corrispondente ad organi già presenti alla
nascita, vuol dire che la condizione del suo sviluppo è l’esercizio ed è per
questo forse che possiamo anche “dimenticare” d’essere empaticamente
competenti, per mancanza d’esercizio. Oppure possiamo anche non aver mai
imparato. Manca l’esercizio quando non ci sono stimoli adeguati. Al bambino non
è offerta l’opportunità dell’esercizio di una funzione.
I
processi precursori dell’empatia presenti alla nascita sono tecnicamente
definiti “mimetismo motorio”. Probabilmente
è con l’utilizzo di questi processi che il bambino porta dentro di sé il
desiderio materno o, per meglio dire, costruisce dentro di sé il desiderio
corrispondente all’immagine di ciò che vede riflesso negli occhi, nella voce e
nel volto delle persone care. Le prime cose che desiderano le persone che si
prendono cura del bambino, per il bambino, sono legate all’evoluzione. Il primo
desiderio di ogni genitore è scoprire che il bambino è capace di apprendere.
Ogni sua più piccola conquista è accompagnata da manifestazioni di gioia.
Queste manifestazioni fungono da rinforzo perché il comportamento si ripeta e
sempre meglio.
Il
sempre meglio sta per “sempre meglio integrato” corrispondente alle esperienze
attraverso cui il bambino impara a coordinare il movimento del proprio corpo e
dei propri organi nello spazio in relazione alle persone ed agli oggetti e
finalizzando tutto al perseguimento di un obiettivo.
Scoprendo
di “voler fare” il bambino scopre se stesso e scopre che il suo piacere, nel
realizzare l’integrazione degli organi del suo corpo e delle funzioni di questi
organi, corrisponde al piacere antico intuito negli occhi della madre. La gioia
della madre per la sua riuscita sarà la sua gioia.
Quindi,
sintetizzando possiamo dire che il bambino dalla nascita scopre i propri
organi; che attraverso l’esercizio del mimetismo motorio scopre le emozioni dei
genitori e costruisce l’empatia; si appropria delle loro emozioni e scopre la
gioia di poter agire,con intenzione, sulla realtà attraverso il processo di
integrazione dell’Io. E scopre anche una cosa che ha per noi un grande valore
esplicativo ai fini della costruzione di un’ipotesi sulla genesi del DAP:
scopre che il costante sostegno e desiderio che i genitori manifestano in
direzione del perseguimento dell’integrazione dell’Io, funge da collante tra le
stesse funzioni per cui il bambino lega le funzioni che “sente” maggiormente
valorizzate. Per questo la partecipazione, l’interesse, la disponibilità, la
presenza, il contatto di coloro che si prendono cura del bambino, sono
strumenti utili a rafforzare il formarsi dell’Io (integrato), mentre al
contrario, l’assenza, la mancanza di disponibilità eccetera conducono a
disturbi corrispondenti all’atrofia, alla dimenticanza, a poca dimestichezza
nello svolgimento di funzioni specifiche.
In
questa dinamica energetica anche i pre-giudizi, le convinzioni, la fede che i
genitori hanno nei confronti della possibilità del bambino di realizzare le
opportune integrazioni e apprendimenti, li condizionano.
È il desiderio e la fiducia della mamma nella capacità del figlio che lo
rendono veramente capace di realizzare i suoi desideri (della madre) che poi
diventano anche del figlio. Di solito diamo per assodato che i genitori siano
convinti delle reali possibilità del figlio di realizzare gli eventi
maturativi. Invece nella realtà il giudizio dei genitori, quello che sentono e
pensano rispetto al figlio, è sempre condizionato dai sentimenti che vivono nei
suoi confronti, e in genere, nella relazione col figlio, ogni genitore porta
anche i sentimenti non elaborati e i bisogni non soddisfatti dalle relazioni
avute col/nel suo mondo. Anche quella col figlio quindi è una relazione
colorata dal proprio mondo interno ed anche con lui si esprimono bisogni di
dipendenza e regressione infantile. Molte insoddisfazioni possono venire a
galla e i propri bisogni si impongono in modo più impellente di quelli degli
stessi figli. I genitori possono ritrovarsi ad essere troppo presi dalla
propria realtà e distratti nei confronti dei figli.
Inoltre
capita a tutti nella vita di scoprire che ci sono periodi alti e bassi e a
tutti può accadere che, pur essendoci disponibilità, amore e attenzione, ci
possono essere periodi in cui anche le persone che si prendono cura di un
bambino sono presi da altro e inavvertitamente cambiano il loro modo di
rapportarcisi.
Per una madre può esserci la nascita di un
altro figlio, un problema di lavoro, il decesso di una persona cara, insomma
eventi che possono distogliere l’attenzione dal bambino riducendone
l’investimento affettivo. Del resto è un normale modo di relazionarsi quello
che prevede il graduale disinvestimento genitoriale e serve ad educare
all’autonomia. Solo che questo disinvestimento non sempre si realizza nel
momento opportuno né nei modi in cui il bambino può tollerarlo.
In
questo periodo della propria esistenza la sua vulnerabilità è notevole. La vita
si limita al rapporto instauratosi con le figure primarie e, in alcuni casi,
qualsiasi cambiamento che non tenga conto del periodo evolutivo e delle
modalità di relazione del bambino, è suscettibile di ingenerare un vissuto
drammatico che produce un grosso dolore e paura.
Il
dolore e la paura generano la rabbia che non può comunque dirigersi contro le
persone da cui si dipende perché rimangono sempre gli oggetti più significativi
della propria esistenza; attaccarle significherebbe rischiare di distruggerle,
di fargli del male e questo non può essere, non può avvenire. Nasce un
conflitto il cui esito porta a rivolgere questa rabbia contro se stessi. C’è
un’inversione di tendenza. Aggredendo se stessi si realizzano diversi
obiettivi: si scarica la rabbia; si punisce colui che vive la rabbia e desidera
fare del male alle persone cui si vuole bene; si fa anche del male all’oggetto
cui i genitori vogliono bene, quindi li si ferisce indirettamente.
Quando
le esperienze di questo tipo, di disattenzione genitoriale, di disconferma o di
trauma, sono frequenti o molto intense o durano per troppo tempo, è possibile
si formino delle personalità dubbiose; con poca fiducia e spaventate dalla
realtà, sempre sulla difensiva. Sono persone costantemente attente a
controllare tutto e tutti e tese a tenere in un insieme coerente, con tutte le
loro forze, le componenti emozionali e cognitive del mondo che si sono costruiti.
Sono
persone costantemente sottoposte a stress emozionali e fisici perché si
sobbarcano di tutti gli oneri di un’autonomia di cui non sono capaci o alla
quale sono impossibilitati; cercano di dimostrare di poter fare tutto da soli,
come immaginano che vogliono i loro genitori; di non aver bisogno di alcun
aiuto pratico né affettivo; tengono a bada le emozioni e la loro espressione
perché hanno interpretato il voltafaccia o il disinteresse o la disattenzione
genitoriale come una richiesta tacita di crescita e autonomia. Pur non avendo
mai vissuto una vera e grave separazione vivono paventandone sempre una. Sono
quindi persone sempre in allarme e impegnate a vivere al massimo delle proprie
possibilità.
Probabilmente
proprio questo “massimo costante sforzo” rende loro impossibile realizzare
qualunque progetto. La tensione e l’ansia derivanti da questa modalità di
approccio alla vita sarà energeticamente depauperante perchè si esaurisce nel
tentativo del controllo.
Il
naturale sentimento di fiducia nelle
proprie possibilità, non essendo stato alimentato dai genitori distratti,
presi altrimenti, arrabbiati, insoddisfatti, delusi, è frainteso e viene
sostituito da quello del controllo. Certamente perché c’è anche
più dimestichezza con questa pratica piuttosto che l’altra.
Qualunque
vera separazione o anche solo il rischio di una vera separazione, che
potrebbero anche essi stessi giudicare e sentire come necessaria, una perdita
improvvisa o anche solo il rischio di una perdita, mette questa persona davanti alla realtà del proprio
vissuto d’impossibilità a “farcela” a sopravvivere e può scatenare un attacco
di panico.
Gli
attacchi di panico hanno esordi improvvisi ed inaspettati. Questi momenti di
acuta ansia non durano moltissimo ma comunque il tempo sufficiente a
stabilizzare un sacro timore che l’evento possa ripetersi.
Non
ci sono motivi oggettivi di scatenamento; il pericolo e il terrore che si
racconta di vivere è solo un tentativo di descrivere l’emozione, che si crede,
dovrebbe accompagnare le sensazioni disgreganti che si sperimentano. La paura è
terribile perché è di morire e non ci sono parole capaci di rendere conto
efficacemente del vissuto e in maniera credibile. In quel momento non è
l’individuo a vivere l’attacco di panico bensì, al contrario, ne è vissuto. Si
ha paura della follia e della perdita di controllo perché quello che si sta
vivendo “è” follia, “è” al di là di sé. L’Io con tutte le sue capacità di
controllo, razionalità, lucidità ha abdicato o si è anche lui nascosto da
qualche parte. La tempesta infuria e devasta i ritmi, sconvolge i confini.
Ogni
parte del corpo va per conto suo, diventa pesante, stanco, estraneo e “quelle
strane sensazioni” diventano indici di una volontà che è dentro di noi ma non
siamo noi; non la riconosciamo come nostra. Nasce la paura della follia e di
non poter essere artefici di noi stessi nelle esperienze future. Si
autoalimenta la sfiducia. Comincia una lotta immane ed estenuante tra il
cedere, lasciare andare e lasciarsi andare o tenere/tenersi sotto controllo. Il
“sapere” dell’irrealtà del sintomo non basta a tranquillizzare; tachicardia,
senso di soffocamento, blocco allo stomaco, contrazioni viscerali, disturbi
alla vescica, tremori agli arti, tutte sensazioni, forse non reali, ma non per
questo meno vere.
Dopo
le prime volte, la diagnosi ufficiale, “sindrome
da attacchi di panico”, diventa anche una condanna perché è come se questo
disturbo venisse catalogato tra quelli di fantasia, non reale, inventato. Chi
non l’ha mai vissuto non riesce a capacitarsi della veridicità delle sensazioni
e dei vissuti raccontati e allora accade che questi disturbi vengono vissuti in
solitudine, là dove matura il pudore a confessare la numerosità degli attacchi
e la loro gravità. Quando poi non si arriva anche a sentirsene in colpa.
Nella
relazione si cerca la sicurezza sulla quale comunque ci si riserverà sempre
qualche dubbio. Si tende alla simbiosi e all’approvazione degli altri. Si
temono le emozioni bloccando in modo particolare l’espressione
dell’aggressività; si tende al conformismo sociale e si sacrifica la
creatività.
La
cosa che più di tutte si evidenzia è il legame tra angoscia di separazione e
panico.
Attacco ai legami dell’Io come presupposto per il DAP
L’approccio terapeutico alla sindrome parte sempre da
un’ipotesi e questa può essere formulata a partire dall’osservazione del
comportamento e dai vissuti fenomenologici. È per questo che ogni intervento
deve essere preceduto da una breve indagine diagnostica. A volte è anche
possibile ci siano manifestazioni sindromiche simili che, pur appartenendo allo
stesso quadro diagnostico, possono poi rivelare una diversa genesi dinamica e
perciò diventa importante che la diagnosi sia anche capace di leggere una
differenza nel formarsi di un certo quadro nosografico.
Nel DAP ci colpisce quanto ci viene riportato circa
un vissuto di separazione tra l’espressione corporea e la capacità di
riconoscere l’emozione rappresentata. L’unica emozione riconosciuta alle
diverse attivazioni fisiche (tachicardia, soffocamento ecc.) è la paura. Le
persone affette da panico nelle sue varie manifestazioni, non sono in grado di
risalire alle emozioni che hanno scatenato quelle attivazioni neurofisiologiche
ma riescono unicamente a riconoscere quella da esito finale. È possibile
supporre che proprio il mancato riconoscimento emozionale porti ad una
sensazione di estraneità sensoriale che, alla fine, è riconducibile alla paura.
Un altro elemento distintivo che può assumere valore
differenziale nel DAP è il fatto che, mentre nelle forme di attivazione
somatica riconducibili all’isteria l’investimento riguarda l’organo e la
funzione specifica relativa, in modo che il sintomo assume un proprio
linguaggio e una propria comunicazione alternativa rimandando sempre a qualche
altra cosa (il sintomo sta per qualche altra cosa), nel panico ciò che viene investito affettivamente è il legame tra le funzioni
dei diversi organi È investita la funzione di raccordo e il legame tra le
stesse funzioni che in tal modo perdono di senso e significato. Proprio questo
investimento dà conto sia del valore aggressivo di quest’affetto sia della
valenza relazionale del DAP.
Tutto ciò ci conferma ulteriormente anche rispetto a
quanto accennato a proposito dell’empatia; cioè che le funzioni dipendono
dall’esercizio e dall’utilizzo che ne facciamo e che, ora possiamo dire, è
innanzi tutto relazionale.
Nel tentativo di spiegarci
cosa accade negli eventi di DAP proviamo a dire che i processi fondamentali del
nostro organismo sono relativi alle funzioni del “legare” e “separare”. L’abbiamo visto un po’
in opera nell’evoluzione e abbiamo anche visto che queste due funzioni operano
anche a carico di ciò che costruiamo dentro di noi. Una volta scoperto l’uso
che possiamo fare delle varie istanze, emozioni, sensazioni e funzioni che formano
il nostro organismo, leghiamo e mettiamo insieme quello che è fuori di noi e
quello che viviamo dentro. Quest’operazione la realizziamo sia a livello
psicologico che corporeo anzi al contrario, sia a livello corporeo che
psicologico, perché è dalle esperienze corporee che partono le informazioni che
alla fine “mentalizziamo” per sintesi progressiva. Le funzioni del “legare” e
“separare” si legheranno e avranno una corrispondenza con le sensazioni e con
le emozioni così che possiamo parlare di una sorta di “corporeizzazione”. Cioè,
contrariamente a quanto può suggerire il termine, le emozioni possono essere
comprese solo dopo che le abbiamo sentite nel corpo e abbiamo imparato a
conoscerle. Il che vuol dire che ciò che sentiamo nel corpo ha sempre un correlato
e un significato emozionale; solo che può essere subentrata una difficoltà a
ri-conoscerlo. Un’interruzione tra il sentire e il capire.
Ciò
che negli attacchi di panico determina questo scollamento è la rabbia rivolta
contro l’Io e le sue funzioni. In queste persone quando l’evento separazione, o
la sua possibilità, si produce realmente, sotto forma di un’eventuale decesso,
allontanamento da persone care, realizzazione di un progetto d’autonomia (tesi
di laurea, diploma), matrimonio o anche si presenta in forma simbolica (un
viaggio, un volo, un conflitto relazionale) e sono in un momento di stress
fisico o psicologico, scatta l’attacco di panico derivante da un vissuto di
dolore cui corrisponde una rabbia che non può essere indirizzata verso l’oggetto
scatenante in quanto è lo stesso oggetto visto e perseguito come gratificante.
Questa rabbia viene allora diretta verso l’Io, che è “un’integrazione di
funzioni”, menomandone la capacità legante in quanto è proprio questa capacità
che rappresenta, in quel momento, l’inverso del processo che sta generando la
rabbia (la separazione) e, per l’inconscio, l’inverso di una cosa è la cosa
stessa; si realizza con questa modalità l’aggressione dell’evento separazione
che fa stare male.
L’aggressione
dell’Io rappresenta per questo disturbo anche l’aggressione dell’oggetto
condiviso dalla nascita con la figura primaria di relazione; con il primo campo
“madre” il bambino condivide la gioia e il piacere narcisistico
dell’integrazione. Aggredire l’Io può equivalere, per il bambino, ad aggredire
in sé il desiderio materno della crescita e dell’autonomia.
Una
diagnosi energetica rivelerà in queste persone una buona tonicità, tendenze
affermative e atteggiamenti risolutivi che rimarcheranno tenacia la quale può
indurre a errate valutazioni diagnostiche di masochismo morale. Queste persone
non sono masochiste perché non godono nello star male e nel non riuscire a
realizzare i propri obiettivi. Anzi ne soffrono e se ne affliggono e
l’autodenigrazione è solo un’ulteriore manifestazione della rabbia autodiretta.
Quando
invece siamo effettivamente in presenza di una bassa energia, è possibile si
realizzi una pura difficoltà dell’Io a realizzare una costante integrazione
delle funzioni fisiche e mentali. Eventuali esaurimenti fisici e/o psichici
possono manifestarsi con attacchi di panico. Però non possiamo ancora dire
d’essere in presenza di una sottostante o evidente depressione perché questa
carenza investe le capacità dell’Io e non quelle del Sé.
Queste
persone sono persone che s’impegnano e si danno da fare ma sono facilmente
vittime della stanchezza, dell’esaurimento, della difficoltà di concentrazione,
mancanza di costanza e può capitare che siano anche destinate ad essere
soggette ad errate diagnosi di depressione.
Il
DAP copre invece una vera depressione quando l’aggressività, l’animosità e la
rabbia sono rivolti al Sé, al sentimento
che accompagna la sensazione di esistere. In questo caso l’individuo è svuotato
di senso anche se ugualmente può essere preda di senso di perdita, dispersione
e disintegrazione. L’Io in questo caso è come se “recitasse il panico” con lo
scopo di trovare un conforto, un legame, un’accoglienza che possa riuscire a
dare un senso relazionale all’esistenza. È proprio il valore relazionale che assimila
queste due manifestazioni.
Per
questa serie di considerazioni possiamo dire che le persone destinate
all’attacco di panico, lo possono incontrare ogni volta che vivono una
relazione nella quale c’è il rischio, anche solo paventato, della separazione.
Si può dire che questo evento è così tanto temuto che si impegnano a tenere
insieme la relazione ostinatamente anche “faticando moltissimo” e al limite
delle proprie capacità, sacrificando tutti i propri bisogni e desideri.
La
problematica della separazione è quindi principe in questo disturbo
presentandosi a tutti i livelli di relazione;
“mettere e tenere insieme” le cose e le persone sono i processi
maggiormente perseguiti perché maggiormente meritevoli e necessitanti di
riparazione.
Nemmeno
rilassarsi è possibile per queste persone perché il relax si accompagna ai
vissuti di regressione psicofisica e regredire, per loro vuole anche dire
“tornare a modalità di funzionamento precedenti”. Quelle “modalità di
funzionamento evolutivo” precedenti sono proprio le modalità di
non-integrazione infantile che queste persone vivono con allarme e paura
perché, per loro, l’allentamento dei legami tra le funzioni si accompagnano a
vissuti di rabbia rivolta all’Io come rappresentante simbolico di oggetto
d’amore condiviso e quindi sono vissuti di disintegrazione e perdita.
Da
qui la paura di perdersi, rompersi e frammentarsi; la paura d’impazzire.
La
paura di “non sapersi controllare” che l’attacco di panico provoca, è quindi da
mettere in relazione alla paura di non sapersi più tenere insieme e alla paura
che l’Io perda la capacità di “controllo funzionale”. Nel DAP quindi non è
messo in discussione l’autocontrollo come funzione Super egoica, ma il
controllo come funzione dell’Io.
La
lotta evolutiva di queste persone è tesa a dimostrare-si capaci di
un’integrazione di cui non sono per niente sicure. E non ne sono sicure perché
nella relazione con i genitori non hanno avuto sufficienti conferme della loro
“capacità/possibilità” di farcela. Forse inizialmente i genitori erano
distratti o presi da altro, poi disinteressati, poi da più grandi li hanno
disconfermati e non è raro infatti che si siano trovati davanti a vere e
proprie competizioni con le figure genitoriali nel cui confronto hanno cercato
e tuttora cercano di mostrarsi più capaci e più bravi di gestire la famiglia,
la professione, la relazione. Competizione che a sua volta esaspera ed alimenta
rimproveri e ritorsioni genitoriali.
Questa
competizione permane tanto a lungo che a volte si rivela ancora attiva nel
perseguimento problematico e forzato dell’autonomia anche nell’età adulta e,
proprio perché forzata, si risolve spesso in esiti disastrosi.
Questa
dinamica, relativa all’Io, si lega alla fiducia piuttosto che al controllo.
La
capacità di controllo è ciò che la società in genere ci chiede; è un appello
alla forza, all’impegno energetico. Ci chiede di rinsaldare e fortificare i
limiti, i confini del nostro organismo e non lasciare uscire né entrare
elementi estranei. Si fa appello implicitamente alla rigidità che può stare
anche per “chiusura”, forza, impenetrabilità, per corazza, anche caratteriale
direbbe Reich. Nel richiamarsi al controllo si fa più appello alle istanze
riconducibili al super-Io piuttosto che all’Io.
Ma
la rigidità si lega alla fragilità ed è proprio questa la caratteristica che
incontriamo nelle persone preda degli attacchi di panico quando coltivano il
controllo piuttosto che la fiducia. Sono al contempo forti e fragili. Danno
l’impressione di potersi fare carico di qualunque cosa tanto da destare
l’incredulità, la sorpresa e il
disappunto, anche in chi li conosce da tempo, quando poi crollano.
In
questo cerchio si auto alimenta la sfiducia.
È
per questo che in queste persone non può e non deve essere alimentato il
“controllo” bensì la fiducia. Fiducia nella possibilità di rilassarsi senza
perdersi; fiducia nella possibilità di ritrovarsi e rimettersi insieme
(ritrovare le loro parti e rimetterle insieme) anche dopo che ci si è lasciati
andare. Fiducia nella possibilità di “connettere” le cose, i pensieri, le
sensazioni e le emozioni. Così potrà diventare possibile rilassarsi anche negli
eventi sessuali e finalmente diventare possibile anche la scoperta del
“piacere” della tenerezza. Un elemento diagnostico differenziale può infatti essere
considerata anche la difficoltà ad abbandonarsi al rapporto sessuale e, come
contrappunto e forse a conferma di questa affermazione, troviamo difficile
notare schiette ed indubbie manifestazioni di panico nelle donne in gravidanza.
Terapia
Qualsiasi
metodo utilizziamo nell’attuare una psicoterapia è influenzato dalle idee che
abbiamo nei confronti del singolo. Nella favola di “Amore e Psiche”, la “fede”
nel sentimento che Psiche prova nei confronti di Amore deve essere sufficiente
e bastare perché il rapporto continui. La favola racconta della separazione che
interviene quando Psiche cerca di “mettere gli occhi”, la coscienza, dove deve
essere solo il cuore. Ma, contrariamente al luogo comune sapere, conoscere e amare non sono necessariamente antitetici;
quando Amore diventa consapevole del proprio sentimento e smette di temere si
ricongiunge all’amata. Allora forse il segreto sta nell’imparare a guardare
dentro di sé piuttosto che nell’altro e riconoscere, nel senso di accettare,
quello che ci troviamo così da scoprire che la fede è figlia della fiducia.
Nel
DAP è questo il credito che maggiormente viene perseguito. Lavorando con
persone affette da questo disturbo, si ha quasi sempre l’impressione che stiano
cercando un sostegno, la forza di credere in loro stessi. A fronte degli
impegni che si assumono, delle cose che fanno, delle disponibilità che
mostrano, di fatto non credono in loro stessi. Forse proprio per questo
s’impegnano al di là delle forze; per dimostrarsi diversi da come sentono di
essere. È come fossero convinti che le cose fatte non abbiano il valore che
meritano; che siano sempre cose di poco conto. Non hanno fiducia. Ciò che manca
in queste persone è la fede e la fiducia e la fede e la fiducia testimoniano
l’amore.
Sembrerà
banale, ma è anche in questo senso che l’attacco di panico è la manifestazione
di un problema di relazione. Queste persone sono in cerca, non dell’amore ma di
essere amati; di qualcuno che le ami senza condizione, che gli faccia sentire e
trovare la fede, che gli mostri e gli faccia sentire la fiducia. Di questi
sentimenti hanno bisogno di appropriarsi e su questa dinamica psicologica nasce
e si sviluppa la logica del gruppo di auto mutuo aiuto.
La
domanda implicita del disturbo è in relazione alla dedizione, fiducia,
gratuità, disponibilità; domande cui difficilmente può rispondere una figura
professionale disponibile solo nelle ore di lavoro. Domande cui risponde in
maniera più prossima invece un gruppo autogestito e autoformatosi.
Di
questi bisogni è necessario tenere conto e un intervento, di qualunque tipo,
rischia il fallimento se non si accompagna alla fiducia. È necessario che il
terapeuta, lo psicologo e qualunque altro operatore credano nella possibilità
che la persona che gli si rivolge ce la farà perché ha le qualità, le
prerogative, gli attributi e le capacità per farcela a tenersi insieme, a
rimanere “centrata” nelle avversità, a non perdersi, non disperdersi e non
svuotarsi quando tanto e tante cose contemporaneamente richiederanno attenzione
ed interventi.
Il
DAP privilegia il corpo come teatro di manifestazione e penso che innanzi tutto
del corpo dobbiamo accettare il dialogo. La mentalizzazione dovrebbe essere uno
degli obiettivi terapeutici e una delle qualità di cui aver fiducia e a cui
dare credito. La “mimetizzazione intellettuale e cognitiva” che è possibile
osservare all’inizio di un’eventuale psicoterapia con queste persone, va
considerata testimone degli sforzi che fanno per trovare la strada del
“com-prendere”, del portare e mettere dentro di loro un certo modo di fare. È
un tentativo di appropriarsi di un modo d’essere; un assecondamento che è un
atto d’amore. Nella relazione devono però imparare a credere nell’esistenza di
un modo d’essere personale che va cercato insieme piuttosto che creato; devono
imparare ad abbandonarsi e lasciarsi andare ai movimenti spontanei del proprio
organismo che in quest’allentamento potrà esprimersi in libertà e creatività.
Devono essere rieducati alla fiducia in modo da smettere di aver paura di ciò
che può accadere dentro di loro. Come Psiche dovranno imparare a “credere
ciecamente” e perciò bisogna stare attenti a non illudere né deludere.
Un
metodo terapeutico privilegiato per il DAP penso sia quello che prevede la
possibilità di comprendere la problematica attraverso l’espressione corporea.
Attraverso il corpo deve prevedere il suo esercizio così da metterne in
evidenza le possibilità di modifica attraverso l’esperienza.
Noi
siamo non solo le cose che pensiamo ma anche il modo in cui le pensiamo, siamo
non solo il respiro e l’aria che ci entra dentro, ma anche il modo in cui
prendiamo e utilizziamo quest’aria. Il “lasciarsi andare” e abbandonarsi, prima
di diventare un’idea, è stata un’esperienza forse assimilabile anche a quella
primaria di abbandonarsi nelle braccia di qualcuno; il panico prima di farsi
parola ha invaso il corpo. Le “distonie neurovegetative” sono lo “scollamento”
delle funzioni del nostro corpo che, sperimentate, testimoniano
esperienzialmente l’incapacità a “tenersi insieme”.
Per
questo penso che in psicoterapia debbano essere considerati un buon ausilio gli
esercizi corporei che rimandano ai concetti di “equilibrio”, “coordinazione”,
“centratura” e che propongono l’attenzione sensoriale privilegiando
l’atteggiamento di accoglienza e fiducia. Rimane importante però non
considerare questi esercizi alla stregua di semplici movimenti corporei; il
loro senso va ricondotto alle valenze relazionali della relazione terapeutica
perché si possano sperimentare, finalmente in una situazione “protetta” e accogliente,
quegli eventi che sono diventati un’ombra persecutoria.
Riassunto. In questo articolo
s’intende ipotizzare che gli eventi “attacchi di panico” siano generati
dall’incapacità e impossibilità ad agire l’aggressività nei confronti delle
prime persone significative. Dalla nascita l’Io si struttura rappresentando
continui atti d’amore volti a queste persone. L’affetto, dato e ricevuto,
diventa il collante di questa stessa struttura. È imperativo allora negare la
rabbia; ma quando diventa impossibile, capita di poterla esprimere solo nei
confronti di questo collante primario realizzando in tal modo diversi
obiettivi. Nel DAP quindi, il controllo non è sempre e solo un’istanza
super-egoica ma anche uno sforzo per “tenersi insieme”. [Parole chiave: Disturbo da attacchi
di panico, Tenersi insieme, integrazione/non-integrazione, fiducia, controllo]
Abstract. Etiology, Differential diagnosis, and therapy
of Panic Disorder. In this article the event of “Panic Attack” is seen
as possibly generated by incapacity and impossibility to use one’s own
aggression against the first meaningful persons. From birth the “Ego” forms
itself by continuous acts of love towards these persons. This affection, given
and received, becomes a glue of this “Ego”. It therefore becomes imperative to
deny one’s range; but when it is impossible, it may happen to be able to
express it only against this primary glue; this realizing in this way various
aims. In the DAP therefore, the control is not only a matter of super Ego but
also an effort to “keep oneself together”. [Key words: Panic Attack Disorder, Keep oneself together,
integration/non-integration, belief, control]
Bibliografia
Goleman D., “Intelligenza
emotiva, che cos’è, perché può renderci felici”, BUR, 2004, (pp. 126-127).
Ruggieri V., “L’identità in
psicologia e teatro”, Ed. Magi, 2001.