sabato 13 luglio 2024

'Holy Shoes' o: 'Esseri' di un'infinita tristezza!

 

Un film da tre stelle!

Preferenze di pubblico: due stelle!

Hmmmm... Film piuttosto scarso per impegnare distraendo da questo caldo estivo da 38 e più!

Però comunque, c'è altro da fare? No! Allora...

Al botteghino due operatori; anche noi siamo in due: una coppia di coniugi che in questa giornata di luglio attaccaticcia e asfissiante, ha preferito una scarpinata pomeridiana al trincerarsi nella bolla del condizionatore casalingo.

Ci siamo impegnati nella ricerca delle ombre dei palazzi per nasconderci ai raggi diretti. Sorpresi della chiusura inedita di alcuni 'nasoni' romani, siamo stati fortunati ad esserci fidati dell'intuito piuttosto che delle proiezioni del gradimento del pubblico. Perché il film che abbiamo visto, noi due soli in una sala enorme, fresca per un salutare condizionamento, se si vuole anche consumistico, ci ha schiaffeggiati con una tristezza infinita.




Holy Shoes (2023).

Diretto da Luigi di Capua. Attori bravissimi. In primis Carla Signoris, ma poi Simone Liberati, la deliziosa Ludovica Nasti, Denise Capezza, Orso Maria Guerrini e la brava Isabella Briganti. E tanti altri personaggi, ugualmente bravi, per un film corale a sottolineare i danni di una dipendenza mediatica e consumistica dove tutti gli eroi, macinati dalla pressione quotidiana, diventano antieroi.

Il film rappresenta la 'perversione consumistica' per eccellenza. Quella che opprime, come la cinepresa posta quasi sempre in primo piano, a sottolineare l'impellenza e la frenesia della vita vissuta a 'filo di lama'. I protagonisti sono impegnati tra possibilità e obbligo nei luoghi dove la discrezione diventa solitudine. In questi ambiti è relegato imprigionato ogni confronto con sé stessi. In questa solitudine  agiscono e vivono Filippo, Luciana, Bibbolino, Mei. Appesi a fili narrativi per i quali basta poco, un'indecisione, un piccolo timore o una patetica incertezza, un momento di compassione o empatia, per diventare reietti sociali. La dimensione paludosa di ogni metropoli e destino di ogni 'rassegnato'!

Per queste persone le 'scarpe magiche' sono la 'carota dell'asino' che, pur attratto dalla carota, lo è inconsapevolmente e in tale stato esaurisce la sua vanità. I personaggi s'impegnano intorno a storie che gravitano intorno all'oggetto del desiderio, le scarpe di cui il titolo, che sole sembrano dare senso e forma alle immagini proiettate del desiderio: dell'amore, del gioco, della passione, della relazione in tutte le sue forme, del riscatto sociale, della ribellione, della fuga, della malattia, della sanità, dell'emarginazione...

In tutte le forme della vita dove è venuta a mancare forse la forma dell'ideologia.

I colori 'stretti' e opachi, spenti malgrado la luminosità e l'ottima fotografia, sono testimoni di un'assenza di oggetti nascosti dall'angustia, dagli spazi psicologici troppo risicati per essere veramente godibili (dai personaggi rappresentati). Come quando Luciana confessa di non essersi mai accorta di poter prendere un brandy al bancone del bar, com'era d'abitudine per le prostitute dei suoi tempi, piuttosto che educatamente seduta a tavolino. O come quando la violenza di Tommaso a carico di due sue coetanee, per rubargli le scarpe, è resa inquadrando solo il volto di Bibbolino o quando la 'liberazione sessuale' di Luciana avviene in un angusta 'ritirata' pubblica o anche quando una carrozzella per invalidi stenta ad entrare in ascensore.

Questi oggetti che mancano, questi colori che mancano di definizione identitaria, rendono ambigua l'identità dell'oggetto del desiderio e lo caricando di ombre approssimative. Lo caricano così di colori spirituali che animano i pensieri dei personaggi. Diventano ambigui essi stessi nelle loro azioni proiettate che, alla fine, 'realizzano' solo vuoti scafandri per la loro identità.

E queste scarpe sono 'vuote'; involucri contenitori di desideri impalpabili e proiezioni fantasticate. Contenitori di spazi inverosimili in cui il 'desiderare' umano perde la sua significativa ricerca interiore per diventare esasperante e ossessiva soddisfazione materiale.

Si comprende allora come sia possibile che nella dimensione consumistica si realizzi compiutamente il disegno pragmatico delle ragioni economiche che, cancellando il senso della ricerca interiore, si misurano con l'unica dimensione che trovano economicamente gestibile: la nevrosi! 

E' in questa dimensione che trova senso l'uso inutile delle cose, il possesso di oggetti sempre più ingombranti, lo svolgimento di attività senza scopi, l'abilità artigianale senza competenza, il bere senza sete e mangiare senza fame.

Cosa c'è da meravigliarsi allora se qualche adulto/adolescente si tagliuzza, qualcun altro si autoinfligge punizioni e qualcun altro ancora pensa di risolvere i conflitti relazionali 'cancellando' la vita dell'altro?

Si recrimina per la violenza.

'Holy Shoes' non parla d'altro; non parla che di 'aggressività trascesa' nell'ambito della violenza e mai più riconosciuta. La violenza della solitudine parolaia, di quella del porno televisivo, di quella al bancone del bar, di quella della domenica chiusi in casa, di quella dei malati e degli invalidi, di quella delle rinunce...

A volte la nostra vita si carica di rinunce. A volte si eredita la 'rinuncia' quando il patto familiare è la promessa di assistere i genitori anziani o sostituirne la graduale dipartita. Quando la fedeltà all'altro diventa più importante di quella a sé stessi. Quando la conquista di un corpo diventa più importante dell'amore. Quando il potere sostituisce la potenza e l'intelligenza cede all'abilità.

In questi casi l'essere umano abdica al 'desiderio', lo travisa e lo confonde col bisogno. Abdica al proprio 'essere umano'; a ciò che lo distingue da quell'asino che vede solo la carota che gli hanno posto davanti agli occhi.


Giuseppe Ciardiello

giovedì 11 luglio 2024

Pensare, provare (emozioni) e sentire (il corpo) nella Vegetoterapia

 Ogni acting di Vegetoterapia si conclude con l'espressione verbale delle sensazioni, dei pensieri, che possono essersi affacciati alla mente, e delle emozioni. Cioè, alla fine dell'esecuzione dell'acting, la persona che vi si è sottoposto racconta, piuttosto che elencare, le emozioni, le sensazioni e i pensieri che gli sono passati per la testa mentre eseguiva l'acting.


Con questa modalità si considera implicita l'eguaglianza e la sovrapposizione di questi tre processi. Si dà per assodato che durante lo svolgimento dell'acting sicuramente passeranno dei pensieri per la testa; ci saranno delle reazioni fisiologiche a questi pensieri e ancora, questa sensazioni e questi pensieri saranno accompagnati da specifiche emozioni.


Capita a volte che si incontrino difficoltà specifiche nell'individuazione delle emozioni per cui, pur essendo semplice descrivere le sensazioni e raccontare i pensieri che si ricordano, o quelli di cui ci si è accorti, si scopre che è difficile il compito di associare le singole emozioni a specifiche sensazioni e pensieri.


Questa difficoltà induce spesso a dubitare di questa associazione, o sovrapposizione di processi, e risulta più facile credere che la cosa sia impossibile oppure che tutto quello che è stato vissuto, e quello che si è provato, può esistere senza essere ricondotto ad una definizione specifica.


Altre volte si confondono le sensazioni con le emozioni e i pensieri e, di per sé, non si ritiene che siano necessariamente accompagnati da posture, da movimenti, da atteggiamenti fisici corporei e quindi da sensazioni e atteggiamenti mentali (sì, perché gli atteggiamenti sono anche mentali...).




Per la verità questa concezione assolutamente elementare e incredibile, di parcellizzazione dell'organismo umano, di fatto è appartenuta anche ai professionisti della salute mentale e ai ricercatori scientifici che, sull'onda della legittima necessità biologica e medica, hanno cercato di ricondurre anche le emozioni all'attivazione di singoli e specifici siti cerebrali.


Le esperienze vissute da organismi animali sono in realtà delle combinazioni di processi che coinvolgono tutto l'organismo complessivamente e contemporaneamente. È questa assimilazione che ci permette di dire che a provare le sensazioni, le emozioni e a produrre il pensiero non sono i singoli organi o la loro combinazione, ma è la mente del soggetto sottoposto all'acting. Anzi, per meglio dire, è proprio questa esperienza complessa e diversamente articolata che chiamiamo 'Mente' e che, proprio per questo, la stessa mente e il suo prodotto non possono essere ricondotte solo a un'esperienza fisica o emozionale o cognitiva ma saranno sempre individuabili solo come 'insieme'.

Perciò le esperienze, anche quando sono definite 'singole' e si tenta di parcellizzarle o quando sono confinate per motivi di ricerca, come quando si cerca di isolare l'amigdala dall'ipotalamo o dall'ipofisi, perdono identità. Non sono più quegli oggetti osservati e definiti 'esperienza' ma diventano semplici processi biologici, automatici e reattivi, non ricostruibili nella loro totalità.


Giunge a sostegno di questa realtà organismica l'articolo apparso su Sanitàinformazione dal titolo: 'Cervello,le emozioni lo ‘accendono’ come il tatto o il movimento.' di Isabella Faggiano del 9 luglio 2024.


L'autrice fa riferimento ad uno studio, effettuato dall'Università di Milano-Bicocca e apparso su 'iScience', in cui le emozioni e le sensazioni 'accendono' gli stessi siti cerebrali e conclude affermando che: 'Si dimostra così l’idea di un’esperienza ‘incarnata’ delle emozioni, e quindi la necessità di esperire a livello tattile e motorio le emozioni per poterle generare e sentire consciamente'.


Beh, se quasi all'inizio della mia attività professionale, circa trent'anni fa, c'era chi celiava affermando che 'se bastava fare del movimento fisico allora si poteva anche andare in palestra piuttosto che in uno studio di psicoterapia...', oggi è finalmente evidente il senso di proposte psicoterapeutiche alternative.


Ma ciò rende anche sempre più attuale la necessità di porre attenzione a tutti i processi organismici piuttosto che alle singole espressioni comportamentali (come quelle da contenere). ...ma questa è un'altra storia!

Giuseppe Ciardiello


lunedì 8 luglio 2024

Credenze, false credenze e meccanismi di difesa (MDD)

 

Gli animali hanno dei desideri? Certamente, ma per comprenderli è necessario partire dalle loro motivazioni, vale a dire da quelle propensioni che si traducono poi in azioni, come rincorrere, esplorare, competere.

Il gatto non vuole la pallina, desidera rincorrere, così come il cane ama collaborare e quando svolge un’attività insieme a noi ecco che il suo desiderio più grande si avvera.

Le motivazioni sono perciò delle tendenze all’azione che caratterizzano una specie o una razza rendendo il soggetto smanioso di poter compiere quell’attività.

Nel momento in cui le motivazioni del soggetto trovano soddisfazione perché richiamate ed espresse, magari in un gioco, l’animale trova gratificazione, cioè un piacere che è soprattutto coinvolgimento e gioia.

Ma c’è qualcosa di ancora più importante: poter esprimere le proprie motivazioni dà appagamento, cioè rasserena e tranquillizza togliendo inquietudine e noia, che sono alla base dei più importanti problemi comportamentali. (I bisogni e i desideri nel cane e nel gatto)



Da un punto di vista prettamente comportamentale, sono tante le cose che testimoniano la nostra appartenenza al mondo animale e tra queste c'è il bisogno e il desiderio che, tradotto nei termini dello scritto precedente: 'Le motivazioni sono perciò delle tendenze all’azione che caratterizzano una specie o una razza rendendo il soggetto smanioso di poter compiere quell’attività.' porta ad assimilarne i significati.

Dal punto di vista fenomenologico dobbiamo invece ammettere che è possibile ci sia una differenza sostanziale tra desiderio e bisogno.

La motivazione arricchita della fantasia, che carica il bisogno di tutto il pregresso significato storico ed evolutivo di ognuno, è ciò che fa dell'essere umano un 'essere desiderante'. E' ciò che prefigura un desiderio mai veramente realizzabile e che lo rende quindi anelante di un qualcosa mai veramente raggiungibile. Da questa condizione nasce la spinta allo sperare e l'anelito che conduce al 'credere'1.

Il 'credere' fa parte dell''essere umani' ed è come una precondizione da cui possono sorgere le regole della convivenza. Perciò si può 'credere' nell'altruismo, nella bontà, nell'odio, nelle diverse passioni, nell'appartenenza, nell'indipendenza o nell'interdipendenza. Ognuna di queste credenze è ugualmente legittima per cui il 'vero' non sta nell'essenza di una o dell'altra fede bensì nella loro condivisione. Più una credenza è condivisa più sarà legittimata.

La conseguenza del credere è che il comportamento adottato sarà ad esso conseguente e ci si muoverà quindi in base a ciò che si crede.

Credere in qualche cosa, e quindi avere una credenza significa che, nell'approccio con la realtà e nelle relazioni, si contribuisce a costruire rapporti che configurano una relazione alla cui base c'è quella credenza. Ci si circonda quindi di condizioni che confermano la credenza e si escludono quelli che non la confermano. Coerentemente con la credenza, ci si circonderà inoltre di eventi che la confermano e si acquisirà una corrispondente sensibilità e preferenza. Per conseguenza gli eventi e le esperienze che disconfermano la credenza non sono colti e, trascurati con superficialità, passano inosservati.

Credere, in qualche modo vuol dire 'creare' in un gioco di fantasia dove si costruisce la realtà.

Questi stessi comportamenti alimentano e sostenegono le false credenze.

Se da piccoli ci si convince di essere inadeguati o incapaci e se si è stati destinati ad una categoria particolare, per designazione genetica o sanitaria, dai genitori, dagli amici o parenti, e a volte anche dagli educatori o maestri e insegnanti, poi ci si comporterà in maniera tale da riprodurre le caratteristiche di quella categoria con un'enorme difficoltà a cambiare destino e venirne fuori in maniera indolore. In ciò consistono le 'false credenze': convinti di essere sfortunati, sfigati, cattivi, inadeguati, indegni di amore e di attenzione, brutti e incapaci, oppure eccezionali, speciali, fidati ecc., ci si ritroverà con situazioni che quella credenza sostengono e dimostrano. Così la realtà si completa nella circonferenza di un cerchio in cui il 'cane si morde la coda': è così perché ci credo; ci credo perché è così.

Una storiella di Osho ironizza su ciò che può accadere alle persone 'credenti':

"Due preti stanno giocando a golf. Il più giovane manca una buca facilissima ed esclama: <<Cazzo!>> Il più anziano lo rimprovera ammonendolo: <<Fratello, se continui a dire parolacce, Dio andrà in collera e ti annienterà con un fulmine!>>

i prelati riprendono a giocare; di nuovo il più giovane manca un'altra buca, ed esclama: <<Cazzo!>>

All'improvviso i cieli si spalancano, si ode un fragor di tuono e un fulmine lampeggia repentino... stendendo il prete più anziano, che rimane riverso al suolo, stecchito.

Cala un silenzio eterno, poi la voce del Signore rimbomba nel cielo come un tuono: <<Cazzo!>>

Le tue divinità non possono essere diverse da te. Chi le crea? Chi dà loro forma o colore? Tu le crei, tu le scolpisci: hanno occhi come i tuoi, un naso come il tuo... e una mente come la tua!" (da 'La mente che mente', Osho, Urra ed., 1979, p. 99).

I MDD sono processi organismici allo stesso modo delle credenze. Articolano in maniera complessa il modo d'essere delle persone e ne disegnano le modalità interattive. Come le credenze anche iMDD in quanto processi non è detto che siano stati individuati completamente. È possibile ci siano ulteriori configurazioni non ancora individuate e che possano emergere con l'aumentare delle conoscenze delle dinamiche relazionali.

Presenti in ogni persona, lo sono in ognuno in modo (modalità e grado) diverso perciò, quando ci si chiede da dove vengano, come si formano e quali stimoli sono necessari perché si configurino i MDD, ci si sta ponendo false domande. Osservando con più attenzione i processi che li formano è facile intuire che i processi del 'credere a qualcosa' o 'proiettare', 'dissociare' o 'idealizzare' sono tipici modi di 'essere umani'. Questi processi appaiono costitutivi dell'organismo nel senso che sono potenzialmente presenti nell'organismo umano fin dalla nascita (e sarebbe meglio dire fin dal concepimento!) e fin da allora hanno la stessa possibilità di realizzarsi. Nel corso della crescita e dello sviluppo delle relazioni, i MDD si concretizzano incarnando modi interattivi personali. Tali processi assumono l'aspetto, psichico e corporeo, corrispondente alle configurazione con cui li conosiamo presentandosi in modo singolarmente simili, ma non uguali, in ogni persona.

In pratica è in 'questo modo' che l'essere umano funziona.

Questi processi sono parte del modo d'essere delle persone al punto che, se non ci fossero, non saremmo quello che siamo. Saremmo probabilmente 'non umani' perché la nostra umanità è data proprio dall'esistenza di questi processi che ci rendono sensibili alle relazioni che così possono condizionarci.

È apparentemente banale parlare dei MDD in termini di costituzionalità ma è proprio questa loro imprescindibilità che permette di ricondurre la loro eventuale disfunzionalità, del credere e dei MDD, non al loro essere presenti o meno nel complesso personologico, bensì al loro grado di utilizzazione piuttosto che alla semplice presenza.

Nell'organismo umano tutte le credenze sono possibili così come lo sono tutti i MDD per ogni personalità. I processi alla loro base sono uguali per ogni persona così che ognuno decide di credere ad una o all'altra cosa allo stesso modo in cui ognuno alimenterà alcuni MDD invece che altri. Si crederà di più a qualcosa e meno a qualcos'altro ed emergeranno più intensamente alcuni MDD rspetto ad altri. La distinzione la faranno la rigidità e la frequenza con cui le rispettive credenze e i MDD saranno attivati e che, al di là di una 'normale' finestra di tolleranza, ne decreteranno la disfunzione.

Credenze e MDD di difesa nel corpo

Anche nell'uso di una psicoterapia corporea come la Vegetoterapia, che si confronta con la disamina degli aspetti cognitivi a partire dal corpo, ci si incontra con le credenze e i MDD che, facendo parte parte del modo d'essere della persona, assumono anche una forma corporea che li fa definire incarnate. In una configurazione organismica complessiva la persona "è" i suoi modi di difendirsi e i suoi modi di credere per cui, da un punto di vista terapeutico, è necessario pervenre a una formula che decodifichi la relazione che l'organismo agisce nello svolgimento dell'interazione con l'operatore terapeutico.

Ma allora che significa svolgere un lavoro corporeo riferendosi ad una psicoterapia 'Corporea'?

Fino a qualche anno fa l'atteggiamento generale degli psicoterapeuti corporei era quello dell'osservazione comportamentale. Più che a questo tipo di osservazioni, la Vgt parlava genericamente di energie e faceva riferimento anche a quegli aspetti più tipicamente automatici e 'vegetativi' quali brividi, tremori, tensioni, temperature, rigidità posturale, modalità di appoggio dei piedi, elasticità delle ossa mobili (prima di tutto gabbia toracica e colonna vertebrale), mobilità del bacino ecc. Anche queste manifestazioni però non rappresentavano tutto l'organismo e non erano le uniche 'vere' rappresentazioni del modo d'essere delle persone.

Con l'avvento delle neuroscienze, della New age e dei più recenti punti di vista (Searle ecc.) che hanno recuperato alla scienza le modalità introspettive della meditazione buddhista e delle esperienze orientali, con l'apporto dell'osserazione in prima persona, l'aspetto energetico ha preso un significato più ampio: "A partire dalle sensazioni bottom – up, costruiamo innumerevoli forme di percezione e cognizione: i nostri pensieri e ricordi e le nostre convinzioni sul mondo. A loro volta, queste costruzioni esercitano un influsso top down. È così che giungiamo a vedere ciò che corrisponde alle nostre convinzioni: È il risultato del livello top down delle nostre costruzioni mentali, che influiscono sul nostro modo di fare esperienza della realtà.

E il Sé può diventare una di queste costruzioni top down; infatti, la nostra concezione del Sé deriva da ciò che abbiamo appreso, e questa concezione a sua volta plasma la nostra percezione del Sé: il nostro senso del Sé si basa su ciò che crediamo che esso sia. È un processo che si rinforza da sé, che si autorinforza. ('Tra me e noi', D. J. Siegel, Raffaello Cortina ed., 2023, p. 25)

In quattro dei miei libri precedenti ho avanzato l'ipotesi che la mente sia una proprietà emergente di flussi di energia incorporati e relazionali; i flussi hanno origine, emergono, dentro il nostro cervello e il nostro corpo delimitato dalla pelle (flusso incorporato) e all'interno delle nostre relazioni con le persone e il pianeta (flusso relazionale). (idem, p. 73)

Nel libro appena citato D. J. Siegel descrive l'organismo umano come composto da flussi di energie che si incontrano configurando forme composite che, coordinate e integrate, costituiscono singole e soggettive armonie dell'organismo umano.

Così considerate le forme assunte dagli organi, dal cervello, dalle ossa, dalle fibre muscolari, dai tendini ecc., sono le diverse configurazioni assunte da un'unica forma di energia che, nell'organismo umano si organizza e genera quella che definiamo 'mente'.

Da questo punto di vista non ha più senso differenzire le funzioni organismiche che, da sole, non spiegherebbe mai la genesi mentale.

Pur essendo estremamente utili in campo scientifico (medicina, biologia ecc.), anche in psicologia la differenziazione corporea si rivela fallace. Anche quando è necessario conoscere in dettaglio i singoli organi che compongono l'organismo, come quando è necessario conoscere il ruolo svolto dai neuromediatori (sostanze chimiche prodotte dal corpo stesso) e dai neuroni (organi costituenti i diversamente definiti sistemi nervosi), i prodotti mentali non sono riconducibili a singoli settori corporei o agli organi del sistema nervoso. Così, dato che il corpo comprende anche il SNC (cervello) e periferico (nervi e midollo spinale), e che è l'organismo complessivo a costruire e sostenere le relazioni, il corpo e la mente formano un'unica realtà: CorpoMente.

In tal caso ogni forma corporea contiene in sé l'impronta mentale che colora l'agito relazionale. Che detto in altri termini significa che le proprie credenze, le convinzioni e difese (fische/mentali) formatesi per le relazioni vissute nel corso delle prime vicende evolutive, hanno una forma che è sostenuta da un processo neurofisioogico che si riverbera in tutti gli agiti relazionali successivi.

Sarà allora possibile, avendo appreso un vocabolario tecnico operativo adeguato (la Vgt), tradurre le azioni corporee in azioni mentali corrispondenti così da comprendere le credenze e i MDD specifici che le accompagnano.

Appare quindi chiara la funzione degli acting di Vgt: sono proposti allo scopo di promuovere un 'agito' in ambiente protetto (il setting terapeutico) che, libero dalle influenze esterne, può testimoniare e rendere evidente la forma mentale implicita.


Giuseppe Ciardiello



1L'uso del verbo al posto del sostantivo è deliberato per sottolineare l'insostanzialità del processo.

martedì 14 maggio 2024

Interpretazione, contestazione, contestualizzazione e contrastazione in vegetoterapia

Perché in psicoterapia è molto più consigliabile contestare, contrastare e contestualizzare piuttosto che interpretare? E questo, vale anche per la vegetoterapia?

Sempre l'arte può aiutare a spiegare in modo molto semplice quelle stranezze e verità psicologiche più di quanto potremmo fare con ragionamenti e spiegazioni logiche.

Proviamo ad osservare l'immagine che segue: 


Cosa ci vediamo? Cosa ci fanno venire in mente queste immagini?

La realtà è che questa foto riproduce nient'altro che una serie di colori spiaccicati sulla parete del muro di una casa (in località Testaccio che è un quartiere storico di Roma). 

Si tratta di macchie di colore diversamente composte che, ombreggiando queste pareti, assumono una certa composizione lineare e cromatica. In queste linee e in questi colori ognuno di noi ci vede determinate cose.

Per poter dare senso a queste linee e macchie viene solitamente usato il meccanismo della proiezione. Cioè proiettiamo la sintesi delle nostre esperienze pregresse, con quelle linee e quei colori, dando forma a quella che è la nostra immaginazione riempendo e colmando con la fantasia i tratti mancanti. 

In questa operazione ognuno riempie a modo proprio gli spazi mancanti dando una forma molto soggettiva a quelle linee e a quei colori. Questa operazione è definibile come: interpretazione (L’atto e il modo di scoprire e spiegare quanto in uno scritto o discorso appare oscuro od oggetto di controversia, di attribuire un significato a ciò che si manifesta o è espresso in modo simbolico, attraverso segni convenzionali o noti a pochi)

La cosa interessante dell'interpretazione è che è un processo che una volta realizzatosi non può essere annullato. Così una volta dato un senso ben specifico a quelle linee e a quelle macchie, non possiamo più tornare alla condizione mentale originaria in cui non c'era ancora un senso unificato.

Nello specifico, per tornare al nostro disegno sul muro, possiamo interpretare queste macchie come la rappresentazione di un bambino e già questa sarebbe un'interpretazione di quelle macchie perché la dimensione e le forme rappresentate sono ben diverse da quelle di un bambino reale.

Poi, anche nella figura affianco si può dedurre l'immagine per esempio una macchina sfasciata, si possono intravedere delle nubi e interpretare la piccola macchia in fondo a sinistra come un piccolo cuore (rispetto all'immagine complessiva) e, la macchiolina in cima, come una bambolina su un monte.

Insomma è evidente che quello che mettiamo in atto è un processo interpretativo alla cui base c'è la proiezione. Quindi possiamo facilmente riscontrare, in un normale processo quotidiano di lettura della realtà che ci circonda, la messa in atto di meccanismi di difesa evidentemente attivi quotidianamente in ognuno.

Della proiezione la cosa interessante è che ognuno può proiettare qualunque cosa che però sia soggettivamente importante. Le stesse macchie di colore, per tutti uguali e per tutti poste in una stessa identica configurazione, assumono per ognuno un significato diverso.

Messe insieme, l'interpretazione e la proiezione, in terapia assumono un senso particolare: una volta che qualcuno interpreta in un certo modo le macchie sul muro, queste assumono una configurazione condivisa che non consente più il ritorno alla condizione iniziale di confusione. Non è più possibile annullare l'emergenza di quell'immagine per tutti quelli che di quelle macchie faranno esperienza avendo conoscenza della precedente interpretazione.

Per esempio nell'immagine rappresentata oltre alla macchina sfasciata, alla bambolina e al muscolo cardiaco, pur non essendo perfettamente evidente, la nostra fantasia riempie gli spazi lasciati dalle nuvole e compone la figura di un cane. 

Una volta definito, anche le persone che all'inizio non lo avevano dedotto possono più facilmente riuscire a vederlo 'rappresentato' (anche se non lo è compiutamente) e ancora di più ci si riesce se alla descrizione verbale aggiungiamo il fatto che la macchina sfasciata è tra le fauci di questo 'cane lupo'.

Una volta resisi conto che quelle macchie rappresentano quell'oggetto non si può più fare a meno di vedercelo!

Cosa si può dedurre da questo processo così condizionante?

Intanto che il processo interpretativo è un processo interattivo estremamente pericoloso. Se anche nelle interazioni umani comuni e quotidiane, una volta realizzatosi rischia di vincolare le persone e non lasciarle più libere di supporre ulteriori sviluppi concettuali a interpretazione degli eventi, figuriamoci il valore che assume  nelle transazioni terapeutiche.

Se l'interpretazione è così vincolante, e da questo punto di vista così deleteria per l'ambito terapeutico, transazioni meno deleterie sono la contestazione, la contrastazione e la contestualizzazione che in qualche modo sono transazioni che, aggirando la necessità della personalizzazione, sono spinte che cercano l'arricchimento soggettivo delle forme assunte da quelle macchie e per le quali ognuno può esprimere una propria interpretazione .

Spesso si è convinti di dover distinguere la psicoterapia corporea da quella cognitiva demarcando fortemente gli interventi cognitivi, e quindi verbali, da quelli corporei. In realtà si possono usare questi strumenti cognitivi anche in modalità metaforica nel campo corporeo, e vegetoterapeutico, ricorrendo a strategie di contato corporeo.

Per esempio si può lavorare sulla respirazione. Facendo distendere una persona e chiedendogli di respirare profondamente, gli si appoggiano le mani sul torace assecondando il movimento respiratorio. L'assecondamento al respiro spontaneo della persona distesa richiede la sintonizzazione del movimento dell'intero corpo del terapeuta al respiro che corrisponde, in qualche modo, alla dimensione della contestualizzazione. E' come un reciproco prendere atto del contesto esperienziale e l'intera sequenza prende forma di un accordo reciproco circa la modalità contestuale dell'atto.

La contestazione nasce dall'accentuazione delle fasi di inspirazione o espirazione o pausa. Durante le diverse fasi si può: a) aumentare la pressione sul torace nella fase di espirazione (ciò lascia intendere che è possibile andare oltre il limite espiratorio). b) sollevare la cassa toracica quando il paziente è al massimo della sua dilatazione polmonare (si può agire sollevando la cassa toracica Sollevandole costole mobili oppure spingendo dalla parte scapolare).

Allo stesso modo la pausa può essere accentuata o diminuita indugiando o sollecitando il movimento della cassa toracica. Tale pratica sembra suggerire la possibilità di un'accelerazione respiratoria oppure un suo rallentamento e quindi un prolungamento della pausa.

Il processo di contrastazione si può proporre opponendosi ai relativi movimenti respiratori. Si può comprimere il torace nella fase di inspirazione oppure sollevarlo, come sopra, agendo sulle scapole o sulle costole libere.

Anche per la vegetoterapia vale quello che è stato detto, all'inizio di questo lavoro, a proposito dell'interpretazione. La configurazione, fisica e psichica, assunta complessivamente dal vissuto della persona, una volta interpretata prende una forma ben definita e rende poi impossibile il ritorno allo stato mentale precedente l'interpretazione stessa. Ciò vuol dire che le configurazioni assunte con le modalità respiratoria suggerite dal terapeuta, possono essere interpretate solo dalla persona che le ha sperimentate. Il paziente resta l'unico legittimato a descrivere sia la forma che secondo il suo punto di vista quella configurazione ha assunto, sia i vissuti che gli si sono presentati nel momento della sperimentazione.

Ciò vale per qualsiasi movimento si possa svolgere o che si possa proporre al paziente e per qualsiasi parte del corpo si possa investire. Le diverse dimensioni della contestazione, della contestualizzazione e della contrastazione si possono utilizzare per qualsiasi acting di vegetoterapia.

Giuseppe Ciardiello




 

venerdì 26 aprile 2024

Quello che si impara facendo lo psicoterapeuta

Una cosa che il mestiere dello psicoterapeuta insegna è che tutti gli uomini e donne sono uguali nella loro diversità; vuol dire che sono strutturalmente uguali ma funzionalmente diversi e che, pur somigliandosi, funzionano in modo diverso.

Sembra facile entrare in questo paradosso eppure, almeno per le derive sociali cui si assiste, per la maggior parte delle persone deve rimanere alquanto strano concepire una diversità nell'uguaglianza. Eppure tutti noi sappiamo che pur essendo composti degli stessi organi, ognuno di noi funziona in modo diverso.

Ogni organismo umano si compone di impianti epidermici, ossei, muscolari, e di organi interni che comunicano tra di loro per mezzo del sistema nervoso centrale.

Il SNC, formato dal cervello e dai nervi, che sono la sua promanazione organismica, raggiunge praticamente tutti gli organi del corpo compresa la pelle che è l'organo più periferico. Così gli stimoli che vengono dalla realtà nella quale ci troviamo, registrati dalla periferia del corpo, dalla pelle e dagli organi ricettivi periferici, sono trasportati al cervello perché li traduca. Lo fa trasformandoli da messaggi elettrochimici in immagini, pensieri, concetti e forme che abbiano senso per l'organismo così da comprenderli.

In pratica sarebbe come dire che il SNC usa i messaggi per costruire una mappa del mondo che circonda l'organismo; una mappa che non potrà mai essere una riproduzione in scala 100 %.

Questo vuole anche dire che ognuno di noi si muove in un mondo costantemente 'mappato' e costruito facendo uso di intenzioni, improvvisazioni, ipotesi, impressioni, opinioni ecc.

A questa traduzione partecipano anche tutte le esperienze passate che sono come un piano di riferimento esperienziale alla capacità di costruire un'architettura coerente di queste mappe. 

Allora dare un senso agli stimoli che colpiscono il nostro corpo e che raggiungono il nostro cervello, per il nostro SNC è come dare alla mappa un senso logico, lineare, coerente e personale.

Così ogni mappa è soggettiva e ogni realtà riprodotta è diversa da quella prodotta da chiunque altro.

E' da aggiungere che la traduzione effettuata dal SNC non tiene conto della possibile diversità dello stimolo che la sostiene né delle possibili diverse conformazioni dell'organo che questo stimolo riceve e trasporta. Inoltre non tiene neanche conto del fatto che la sua conformazione dipende anche dalle esperienze vissute.

Cioè il cervello, che è un organo che traduce gli stimoli, non registra le differenze che lo costituiscono e lo rendono soggettivo per le forme assunte in relazione alle singole esperienze. Ciò perché non esiste una forma ideale organismica. Per lui tutto è perfettamente funzionante indipendentemente dal modo in cui gli organi funzionano. L'importante è che trasmettano l'informazione.

Così possiamo concluderne che nella vita comune, pur assistendo ad un unico spettacolo musicale, non si è consapevoli del fatto che, per esempio l'udito di ognuno degli spettatori, è qualitativamente diverso dall'uno all'altro e che quindi ognuno costruisce una mappa soggettiva. 

Nelle forme umane tutta la fisiologia è differenziata ed assume forme identitarie diverse. Anzi è questa diversità che normalmente definiamo 'identità'. Si realizza per questa differenziazione quell'unicità che ognuno di noi mette in campo nell'interpretare, per esempio, un'opera d'arte.

Per il diverso peso del corpo sulla poltrona sono diversi i punti di vista rispetto al contesto dello spettacolo. I diversi SNC ricevono dal corpo, e quindi dagli occhi, orecchie, nasi, pelli ecc., messaggi diversificati per soggetto della stessa realtà. Informazioni diversificate poi tradotti e interpretati da cervelli diversi per esperienza.

Con tutta questa diversità non può che esserci un esito diverse per ogni interpretazione della realtà, anche quando questa è comune a tante persone. Così l'applauso dedicato ad una stessa esecuzione musicale o ad un'opera teatrale, in realtà è rivolto ad una propria traduzione dell'opera, alla mappa che si è costruita e alle proprie proiezioni impressioni sensoriali.

Del resto probabilmente l'arte è proprio questo: quell'attività, tipicamente umana che, pur nella diversità dei corpi, coglie il senso di infinitezza che li accomuna. Quel senso che li rende uguali!

Il paradosso dell'umanità consiste proprio nel fatto che la differenza tra persone sta nella loro uguaglianza.

Nelle persone sono uguali i modi in cui realizzano costruzioni simili della realtà che li comprende. Quindi si è contemporaneamente uguali e diversi nell'interpretare la realtà così che lo si è, uguali e diversi, in tutte le altre istanze umane che non possono che essere improntate alla diversità e all'uguaglianze organismiche.

Allora, e veniamo alla conclusione di questo apparente panegirico, se un cieco non può costruire nel suo immaginario una realtà composta dagli stessi colori di un vedente, sarà mai possibile che un organismo composto di genitali maschili possa costruire, nel proprio immaginario, la stessa identica realtà di un organismo che possiede genitali femminili?

E pur essendo vero che tutti gli uomini sono uguali a tutte le donne di questo mondo, è anche sacrosantamente vero che la loro differenza non consiste solo nei genitali.

In un post di qualche giorno fa ho postato su Facebook una provocazione sul tema dell'aborto sul cui tema suggerivo fossero solo le donne ad esprimersi.

Con queste righe vorrei eliminare la vena provocatoria e, volendo entrare nello specifico, vorrei rivolgermi a tutti gli amici e nemici, uomini e maschi, di un certo credo, ceto, età, estrazione e appartenenza e fede politica e ideologica, e chiedergli: ma secondo voi, onestamente, è mai possibile per noi, di genere maschile, sostituirci agli esseri di genere femminili nelle decisioni che riguardano la maternità? Ma per come siamo conformati e costituiti, noi uomini potremmo mai cogliere e rappresentarci la sensazione fisica della fecondazione, per amore o per violenza subita, le leggeri intemperanze chimiche che seguono i movimenti dell'ovulo nello spostarsi e radicarsi nell'utero. Potremmo mai immaginare le mappe delle flebili sensazioni dello sviluppo dell'embrione e quelle che vengono dopo, quando si trasforma in feto e poi spinge per nascere? E potremmo mai rappresentarci quelle sensazioni che derivano dalla ricerca sempre maggiore dello spazio che il nuovo organismo comincia a reclamare nella ricerca del proprio posto nel mondo?

Ecco! E' con questi messaggi fisici, chimici, esperienziali che una donna fa i conti quando deve decidere se portare avanti o no la propria gravidanza. Messaggi che io uomo fatico ad immaginare e che, a volte invidiandola, mi rappresento sempre come un dono quell'onere di decidere se consentire o no, alla vita che alberga nel suo grembo, di continuare ad 'essere'.

Per queste condizioni solo l'arroganza, la presunzione, la prepotenza e la violenza possono permettere a degli stessi esseri umani maschi di intromettersi in una decisione strettamente femminile.

Giuseppe Ciardiello

sabato 20 maggio 2023

Cosa c'entra l'indifferenza con Reich?

 Certo in un blog sulla psicoterapia sembra strano che ci si possa esprimere sull'indifferenza senza relativizzarla ad un processo psicoterapeutico. Viene da chiedersi se sia normale essere indifferenti, e se è una patologia o se comunque un disturbo, in quale categoria relegarlo? 

Ma allora, in linea col desiderio di scrivere sull’indifferenza, ci si potrebbe chiedere sul senso di questa energia dell’indifferenza. E' veramente quello dell'indifferenza un atteggiamento derivante dall'assenza di energia o non è piuttosto un atteggiamento derivante da una perversione energetica?


Normalmente l'energia, come la vita, non passa da un essere all'altro. Essa è trasfusa da un organismo all'altro nel senso che è attivata allo stesso modo in cui è attivata nell'organismo originale. In pratica potremmo dire che la vita è una riproduzione frattalica. È un clone matematico. La vita appartiene alla vita; non è regalata da nessuno a nessun altro né alcuno è veramente debitore di qualcun altro per la vita che lo vive. È dato dalla vita alla vita non da qualcuno a qualcun altro. 

Ma la spinta, l'intenzione che vive dentro di noi e che in qualche modo tende ad uno scopo ben specifico, quella viene da qualche altra parte; viene dal nostro passato, dalla combinazione di eventi che hanno costituito il nostro carattere, e che con questa indifferenza forniscono alla nostra vita in questo momento il senso specifico che la colora.  

E quando questo senso non c'è, vuol dire che qualche altra cosa dentro di noi, qualche altro senso, è subentrato per impedirlo.


Strano a dirsi in un contesto terapeutico, ma nella psicoterapia reichiana non è contemplata l'indifferenza. È contemplato esattamente il suo contrario; è prevista la partecipazione viscerale spontanea, istintiva che con tecniche e strategie adatte, quindi con l'analisi degli aspetti cognitivi e sociali adeguati, riesce a realizzare un comportamento adeguatamente modulato dalle strategie apprese nel gruppo di appartenenza. 

La realizzazione di tutto ciò è indice di partecipazione. 

Quando subentra l'indifferenza non è necessariamente vero che manca qualsiasi senso della vita. Rimane il senso personale dove si resta indifferenti per economia, perché fa comodo, perché è più semplice, per uno strano senso di narcisismo per il quale si rimane aggrappati, si rimane appesi alla salvaguardia di un senso di sé assolutamente egocentrico. 

Da questo punto di vista non è assolutamente vero che l'indifferenza comporti una tranquillità fisico chimica. Come non è vero che le persone indifferenti siano liberi da problemi psicosomatici.


Le asme, le aritmie, i bruciori di stomaco, le ansie, gli attacchi di panico, le crisi di insonnia, gli aspetti anoressici e bulimici, sono tutte manifestazioni che continuano rivelarsi nei caratteri e nelle personalità indifferenti. 

Spesso nelle persone indifferenti quello che maggiormente si riscontra è proprio la pressione alta, uno strano squilibrio vagale. È indice di un controllo quasi arcaico, automatico, che è diventato strutturale nella dinamica della personalità. Non ci si accorge nemmeno più di controllarsi, non c'è sforzo fisico o psichico tendente a distrarre da quello a cui si sta assistendo. L'indifferenza è diventata parte costitutiva della muscolarità, per cui gli occhi, la testa, il collo, le spalle, tutto il complesso dell'organismo si configura partecipando ad un atteggiamento di indifferenza. Quando accade di accorgersi di essere spettatori di un evento increscioso, tutto l'organismo partecipa alla distrazione, alla spinta organizzata per indurre l'organismo a guardare da un'altra parte. 


Allora è evidente che anche in questo caso, anche con l'atteggiamento dell'indifferenza la psicoterapia può fare molto. Intanto aiutando a capire che l'indifferenza non è un sentimento né un'emozione ma un atteggiamento per realizzare il quale le emozioni e i sentimenti sono stati silenziati (siamo bravi in questo per salvaguardare la nostra tranquillità).

Con la relazione terapeutica si può riscoprire dentro di sé il gusto dell'interessere, il senso della partecipazione sociale, il desiderio dell'appartenenza, il bisogno dell'aiutare per essere aiutati, e smettere di essere spaventati dalle richieste e dai bisogni che possono essere reciprocamente espressi; una vera relazione umana in un ambiente/spazio protetto può assumere il senso di un lavoro psicoterapeutico che va a ricostruire nel rapporto duale la ridefinizione di esseri umani.


Giuseppe Ciardiello

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