giovedì 31 dicembre 2015

Ancora il cinema! Quel birichino…


   


Il corpo del regista o dell’operatore dietro la macchina da presa fanno parte delle strategie narrative di incorporazione che si rivelano nel movimento di macchina. Il film è capace di riprodurre i movimenti del corpo umano, la sua fisicità, le sue forme di attenzione e il conflitto degli impulsi che ci tengono in bilico tra equilibrio e disequilibrio. (Gallese, Guerra,2015,pag.145)                                                                                                                
Ancora una volta il cinema si presenta come portatore di istanze e conoscenze psicologiche all’avanguardia!
L’anno di nascita del cinematografo è lo stesso di quello della psicoanalisi. Nel 1895, mentre a Parigi veniva proiettato il primo film dei fratelli Lumière, Vienna vedeva la nascita di L’interpretazione dei sogni di Freud.
Nel 1977 Christian Metz scrisse Le Signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma analizzando il linguaggio del cinema da un punto di vista psicoanalitico, e individuò nello "spostamento" e nella "condensazione" i meccanismi comuni sia al film che al sogno. In seguito, nel 2000 con Scritti sul cinema, Cesare Musatti individuò somiglianze strutturali tra la condizione del sognatore e quella dello spettatore durante la visione cinematografica. Molti altri autori sono stati affascinati dal media cinematografico tanto da farne un costante strumento di indagine e/o di riproduzione della psiche e dei suoi processi inconsci.
Più recentemente, un nuovo filone di indagine si è proposto agli amanti del cinema e della psicologia: la possibilità dell’uso del mezzo cinematografico in ambito psicoterapeutico e didattico. Diversi sono i testi di cinematerapia che, considerando l’aspetto creativo e artistico del cinema stesso, vengono annoverati nell’ambito dell’arteterapia.

Da questo brevissimo escursus il cinema rivela un suo ulteriore aspetto magico: quello di sopravvivere al passaggio del tempo realizzando gli analoghi processi, di integrazione e accomodamento, che Piaget individuò nelle prime forme di apprendimento umano. La capacità di adattamento del cinema, la sua capacità di contenere e replicare le forme processuali umane di comprensione e apprendimento, la sua capacità di immergersi nei processi di fantasia e creatività, ancora prima che la ricerca si pronunci, hanno tutti qualcosa di magico nell’anticipare, e a volte non di poco, i progressi che poi, immancabilmente, sono confermati nella maggioranza delle volte dalle successive sperimentazioni. Tutti i libri sul cinema sottolineano, in un modo o nell’altro, questa magia così anche Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze (V. Gallese e M. Guerra, ed. RaffaelloCortina, 2015).
Molto si è scritto dei processi cerebrali inconsapevoli; inconsapevoli perché appartenenti ad automatismi d’apprendimento di tipo esperienziale implicito, quale l’empatia, l’identificazione, la replica, l’imitazione, la proiezione, l’assimilazione, il rispecchiamento, la scissione ecc. Infine le neuroscienze intervengono a persuaderci dell’utilizzo precoce, nelle rappresentazioni filmiche, dei processi di embodyment. Già suggeriti negli anni cinquanta da Merleau-Ponty, quando la psicologia stentava ancora a parlare dell’empatia, egli espresse la convinzione che tutti i processi di apprendimento avvenivano a partire dall’esperienza corporea (oggi diremmo, a partire dalla processazione degli stimoli che pervengono dalla periferia del corpo). Secondo gli autori de ‘Lo schermo empatico’, le neuroscienze ci suggeriscono che i processi di simulazione, impiegati dall’organismo umano a livello del sistema cervellocorpo (l’unificazione dei due termini, cervello e corpo, non è un refuso), sono analoghi ai movimenti della macchina da presa. Come non vedere, per esempio, nei tentativi di Siodmak (La scala a chiocciola, 1946, analizzato nel dettaglio nel libro), nel modo di usare lo strumento di ripresa, come fosse gli occhi di un osservatore umano che si sposta fisicamente nello spazio? In questi utilizzi sarebbe evidente, il tentativo del cinema, di utilizzare strumenti e modalità che replicano i modi in cui viene naturalmente interpretata la realtà e i modi umani in cui avvengono le sollecitazione degli stati d’animo e dei sentimenti degli spettatori. La simulazione incarnata si realizza, ci spiegano gli autori, anche quando assistiamo alla proiezione di un film, attivando processi attentivi primari, di tipo corporeo, che simulano il movimento e l’intenzione agente. Seppure ce ne fosse ancora bisogno, in queste affermazioni si può cogliere un’ulteriore sollecitazione a sostegno dell’uso del media cinematografico anche nelle scuole di psicoterapia. In alcune questo media è già ampiamente utilizzato per agire esercitazioni di analisi e individuazioni diagnostiche e caratteriali.
Specialmente per le scuole corporee, come la SIAR, dove si sostiene che i processi cognitivi si realizzano in simbiosi con gli stati corporei, il cinema assume un valore strumentale particolare in quanto è in grado di produrre quegli effetti particolari che, in merito alla didattica clinica e analitica,  si possono solo descrivere e non sperimentare. Ci si riferisce, per esempio, ai processi di identificazione che, stimolati nella normale visione di un film, in condizioni particolari possono invertire la loro processualità e trasformasi in processi di disidentificazione. Per esempio, quando la proiezione riguarda lo stesso spettatore, ripreso poco prima nel ruolo dell’attore, il fatto di imporre la visione di un unico punto di vista, dovuto all’impiego della telecamera fissa, obbliga ad una posizione univoca tutto il gruppo di spettatori. L’agito può diventare oggetto di discussione, perché condiviso, e consentire il confronto tra sguardo soggettivo (dal di dentro; quello che io sento e so di me) e pubblico (quello che io so che gli altri vedono di me).
Ulteriormente, l’effetto della videoconfrontazione in leggera differita, come può realizzarsi in un’aula e spazio didattico, comporta per il protagonista un implicito e immediato confronto con un suo reale comportamento. Questo consente una soggettiva individuazione di elementi personali che possono anche dispiegarsi in un confronto, a sua volta oggetto di condivisione, con il gruppo/classe. Alla luce dell’embodyment si può inoltre ipotizzare che, la visione di un film in cui si è stati protagonisti, possa agevolare l’individuazione delle caratteristiche personali agite e, quindi, favorire la consapevolezza sia di quelle da coltivare sia di quelle da modulare diversamente. È possibile cioè che tale modo di utilizzare il media cinematografico, possa rappresentare un efficace strumento per realizzare l’incontro soggettivo dei processi bottom up con quelli top down, così da agevolare la costruzione di un modo d’essere terapeuta assolutamente  personale, in alternativa alle icone da imitare.

Giuseppe Ciardiello

lunedì 14 dicembre 2015

Stress, panico e fobie. Quarta ed ultima parte.


La vegeoterapia

 

“Il concetto di embodiment può erroneamente far pensare a una mente che preesiste al corpo e successivamente se ne serve, abitandolo. In realtà mente e corpo sono due livelli di descrizione di una stessa realtà che manifesta proprietà diverse a seconda appunto del livello di descrizione prescelto e del linguaggio impiegato per descriverla. Un pensiero o un’idea, una percezione o un’immagine mentale non sono ovviamente né un muscolo né un neurone. Ma i loro contenuti sono inconcepibili a prescindere dalla nostra situata corporeità.”

(Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze. V. Gallese e M. Guerra, RaffaelloCortinaEditore, 2015)  

 

I sintomi che definiamo ansia, panico e fobia, designano quindi un disturbo relazionale alle fonti del quale è necessario risalire per comprendere il senso della disfunzione e per organizzare, in maniera coerente, gli interventi necessari.

Pur essendo generalmente vero che l’utilizzo di semplici esercizi respiratori hanno un effetto calmante, di fatto non sono utilizzabili nei momenti di crisi di panico o di altre manifestazioni ansiose dato che, l’effetto del disturbo, consiste proprio nella modifica dei parametri vegetativi più automatici dell’organismo.

Da questo punto di vista non bastano raccomandazioni e consigli per far fronte alle crisi d’ansia, di panico e fobie. È necessario prevenire questi disturbi perché, una volta attivatisi, diventa molto difficile contenerli e riportarli sotto la soglia critica senza agire un intervento medico (intendo: senza l’uso di farmaci. Questa difficile ripresa del controllo è quello che legittima l’interpretazione psichiatrica, anche se erroneamente visto l’indirizzo esclusivamente sintomatico). La stessa prevenzione non può ridursi alla precoce lettura delle avvisaglie perché la paura della paura è uno dei meccanismi più automatici che il nostro organismo utilizza nella dinamica della sopravvivenza. Anche dopo una sola volta, quest’automatismo interpretativo tiene ben lontani dal rischio di ricadere nell’esperienza. Una volta attivatosi, questo meccanismo rende temuto tutto quello che è spiacevole nel mondo che ci circonda, e quindi da evitare. Lo fa in automatico e in una maniera così massiva e inconsapevole da formare la base strutturante di alcune dinamiche comportamentali e arrivare anche a dare luogo a credenze. Sembra che la stessa superstizione possa esservi ricondotta (Frith, 2009).

Prevenire, allora, non può che voler dire curare e, nella relazione terapeutica, curare corrisponde all’individuazione delle fasi e degli stadi che la relazione stessa attraversa e, in questi parametri, agire comportamenti alternativi.

Una delle forme terapeutiche più promettenti, per quanto riguarda questi disturbi, è la vegetoterapia che, fin dai suoi esordi, è nata considerando l’intervento psicoterapeutico come strumento di cura. Pur ereditando un approccio psicanalitico, perché allievo di Freud, Reich si accorse presto dell’importanza di intervenire praticamente con i suoi pazienti e cominciò a proporre agiti specifici, durante le sedute, che i pazienti dovevano eseguire. L’esecuzione di questi agiti induceva vissuti analoghi, o simili, a quelli che accompagnavano i disturbi e questa riedizione permetteva un confronto dal quale si potevano dedurre spiegazioni dinamiche oppure sperimentare programmi di comportamento alternativi.

Grazie agli autori succedutisi, la vegetoterapia ha definito meglio il suo campo d’indagine ed è venuta costituendosi con un suo metodo univoco e coerente (Mannella, 2014).

(La vegetoterapia) Come tecnica terapeutica si è sviluppata ideando acting il più possibile simili a comportamenti primari. La logica che li sottende non è l’abreazione, ma la fine modulazione del gesto che, agito con un movimento e un ritmo congeniale alla necessità della persona (agente), permette la riedizione di esperienze congelate nell’organismo. … La VGT ha intuito il modo per poter proporre alle persone di ripercorrere metodicamente le esperienze che le hanno formate tenendo presente che ogni esperienza coinvolge l’organismo complessivo nell’espressione del suo aspetto comportamentale, cognitivo e biologico. … Nell’ambito terapeutico della VGT si realizza un dialogo primario non-verbale fatto di sensazioni e di ritmi, di contrazioni e morbidezze che rimandano alle memorie implicite e ai primi contatti non verbali, attivanti le parti profondamente radicate nella psiche della persona. (Ciardiello, 2012)

Fin dai suoi primi passi l’impianto vegetoterapeutico vede nel corpo la riedizione della mente e nella relazione il realizzarsi di strutture e forme tipicamente soggettive (vedi Analisi del carattere di Reich, 1933). Gli acting sono agiti che veicolano un’esperienza consapevole così da mettere sotto inchiesta il senso del proprio vissuto (infatti, nell’intento di stimolare la consapevolezza, che non viene esplicitamente raccomandata, ogni acting è indagato nei pensieri, nelle sensazioni e nei sentimenti che l’accompagnano).

Per ogni momento terapeutico la vegetoterapia si occupa di comprendere quali dimensioni psicologiche si sono organizzate per quella persona, in quel momento, in quella situazione; cerca di capirne le dinamiche relazionali, il senso della loro organizzazione psicofisica, l’origine storico evolutiva e, alla fine, cerca d’individuare gli acting opportuni per portare questi processi a consapevolezza e ad esame. In tal modo il lavoro vegetoterapeutico si rivela essere fondamentalmente un lavoro di decostruzione e ricostruzione dei vissuti relazionali, che non solo procede per fasi soggettive ma, proponendosi esperienzialmente, prevede un intervento interpretativo più sul versante dell’analogia che del simbolico. Le cose sono più “come se” piuttosto che “è così!” cosa che rende l’individuazione dell’acting adeguato più immediata e vicina al vissuto emozional-cognitivo.

Queste premesse epistemiche hanno permesso di considerare il panico come diverso dalle altre esperienze ansiose. È stato possibile ricostruire una genesi specifica che lo individua come disturbo relazionale e il cui esito insiste in dimensioni diverse da quelle degli altri due disturbi (Ciardiello, 2013). La certezza che esistano complesse configurazioni dimensionali specifiche, probabilmente ugualmente di tipo relazionale, anche per l’ansia, che sia o meno da stress, e per le fobie, fa ben sperare a proposito del fatto che anche l’apporto medicale riuscirà a differenziarsi per questi disturbi e arrivi ad offrire una gamma di interventi più specifici e mirati, ancorchè momentanei, per l’adeguato affiancamento all’intervento privilegiato: la psicoterapia.

 

Giuseppe Ciardiello

 

Bibliografia




Cipolletta, S., "Le dimensioni del movimento", Guerini Ed., 2004.

Frith, C., “Inventare la mente”, Raffaello Cortina Ed., 2009.

Infrasca, R., "Il disturbo da attacchi di panico", FrancoAngeli Ed., 2006.

Liotti, G., “La dimensione interpersonale della coscienza”, Carocci, 2009.

Mannella, M., “Wilhelm Reich. Il dramma e il genio”, Alpes, 2014.

Maturana, H., F., Varela, "L'albero della conoscenza", Garzanti, 1987.

Ruggieri, V. & Coll., (2011), Struttura dell’Io tra soggettività e fisiologia corporea. Roma: EUR.

giovedì 10 dicembre 2015

Stress, panico e fobie. Terza parte


Stress, panico e fobie.



Terza parte




                                                                                       .... Il significato finale concordato dipende da       entrambi, e quindi in una certa misura, anche dall'individuo con cui si sta parlando. Il significato emerge da interazioni fra menti. (Frith, 2009)




La relazione e le sue dimensioni.

Ricordando che per i disturbi oggetto del presente lavoro non esistono sintomi specifici capaci, da soli, di orientare una scelta diagnostica (di dubbia specificità sono anche i sintomi di depersonalizzazione e derealizzazione, solitamente addebitati alle manifestazioni paniche), si può aggiungere che gli stessi eventi scatenanti sono, spesso, anche significativamente soggettivi come soggettive e relazionali sono le risposte agli stessi farmaci. A tal proposito è fin dagli anni settanta che un esperimento di Schacter e Singer sostenne la legittimità del dubbio sull’efficacia dei trattamenti medicali. Dalla ricerca risultò che, a parità di sintomatologia, gli stessi farmaci producevano effetti diversi in persone poste in contesti diversi (Schacter e Singer del 1962 citati da S. Cipolletta, 2004). Inoltre è ormai diventato un luogo comune, almeno per gli addetti ai lavori, considerare che il cervello, processando le informazioni che gli vengono sia dal mondo di fuori sia dal proprio corpo, fa molte cose di cui non si è consapevoli e, così facendo, costruisce un mondo unico e irripetibile per ogni persona. Anche se poi ognuno si convince che sia uguale per tutti (Frith, 2009).

La costruzione soggettiva della realtà obbliga la psicoterapia, e tutte le professioni di cura, ad occuparsi della persona, quindi del soggetto nelle sue relazioni, e non dell’oggetto del disturbo (Ciardiello, 2015). Per cui, l’approccio diagnostico volto alle cause piuttosto che ai sintomi, cerca i motivi per cui, quando le persone chiedono aiuto, lo fanno  portando in consultazione i comportamenti emessi di cui sono consapevoli (i sintomi), mentre restano inconsapevoli i processi dinamici che li hanno prodotti. Essendo la coscienza stessa prodotta dalla relazione (Liotti, 2009), è possibile lo sia anche il disturbo denunciato che, proprio perché privo di cause apparenti, viene indagato in merito alla sua origine già nella prima fase della relazione diagnostica (nell’intento di realizzare una corretta analisi della domanda).

Le modalità relazionali si esprimono per mezzo della personalità, del carattere, del modo di essere e di fare, del modo di vivere e di esprimersi delle persone che portano, letteralmente sulle loro spalle, il disturbo. Il suo senso e significato è inscritto nelle dimensioni psicologiche[1] rappresentate nel comportamento di relazione. La nostra mente, che nasce dalla combinazione del funzionamento organismico in rapporto ad altri (relazione) (Liotti, id.), genera queste istanze che possono essere rintracciate e indagate nel comportamento agito.

Sintetizzando forse si potrebbe dire che le dimensioni psicologiche (DP) corrispondono a complesse configurazioni fisiche e psichiche che il cervello struttura, e la mente interpreta, generando le emozioni che sono, a loro volta, generatrici e portatrici dei significati personali (che accompagnano i sintomi). Le informazioni relative a quei significati saranno sempre di un organismo in movimento e in relazione, condizioni che consentono quell'apprendimento esperienziale che, come quando andiamo in bicicletta, per poter cambiare, nella mentalità e nell’espressività, non può che passare ulteriormente per la relazione.

Gli elementi più significativi del movimento e della relazione, per tutti i disturbi dello spettro ansioso, si presentano nella relazione terapeutica come in tutte le altre relazioni. È questa similitudine a rendere il rapporto terapeutico uno strumento importante ed efficace; uno strumento che si articola anche nella struttura di personalità dello stesso terapeuta, con i suoi intenti, i suoi fini, gli scopi che persegue, i motivi che lo spingono a realizzare questo lavoro e, infine, con la sua idea di Mente e del modo in cui ritiene che questa mente si realizzi nell'universo organismico. Per queste coloriture il setting terapeutico si rivela essere lo spazio privilegiato per il realizzarsi di una modalità di relazione capace di porsi al di sopra della relazione stessa e leggerne le dimensioni che la sostengono.

E quindi, quale uso fare di queste dimensioni?






[1] “… segnaliamo che l’unità funzionale non è soltanto il neurone, ma anche i circuiti neuromuscolari, neuro ghiandolari (neuro viscerali e neuroendocrini). Queste sono dunque le strutture funzionali portanti da cui nasce la dimensione psicologica.” (Ruggieri, id., pag. 23)




Bibliografia:


Cipolletta, S., "Le dimensioni del movimento", Guerini Ed., 2004.
Frith, C., “Inventare la mente”, Raffaello Cortina Ed., 2009.
Liotti, G., “La dimensione interpersonale della coscienza”, Carocci, 2009.






giovedì 3 dicembre 2015

Stress, panico e fobie. Seconda parte.

Stress, panico e fobie.
Seconda parte.

La diagnosi

 
Una corretta diagnosi non dovrebbe occuparsi solo dei sintomi ma dovrebbe prevedere anche d’individuare i motivi del loro formarsi! Uno stato febbrile è solo l’indice di una malattia che può esprimersi anche in altre forme. Pur partendo dai sintomi, l’obiettivo della cura è quello di andare all’origine della febbre cercando di rimediare intervenendo sulla causa. Purtroppo spesso non è possibile risalire alle cause, come accade nel caso delle manifestazioni ansiose, nel panico e nelle fobie; sarebbe allora necessario formulare ipotesi che, cercando di spiegarne le cause, cercassero d’individuare, nella dinamica psicologica storica ed evolutiva, il costituirsi dei sintomi.  
In un'occhiata d'insieme invece, nello specifico di queste tre evenienze, colpisce la similitudine sintomatica cui si fa di regola riferimento. I sintomi di irrequietezza motoria, sudorazione, tremori, bocca secca, mancanza d'aria, tachicardia, nodo alla gola, disturbi intestinali, nausea, cefalea, sudorazione, vampate, brividi, oppressione toracica, vertigini, depersonalizzazione e derealizzazione, si possono presentare per tutti i tipi di disturbi d'ansia. Accade che esiste una predilezione soggettiva, che non è dato sapere da cosa dipende. Ognuno coltiva alcuni specifici disturbi, somatici o psichici: disturbi del sonno, di distraibilità, di affaticabilità, di preoccupazione, tensione, apprensione, preoccupazione, eccessiva vigilanza, impazienza, ecc., e malgrado questa diversità i sintomi vengono trattati, quasi per tutti i casi, allo stesso modo, con pochi tentativi di analisi differenziale. Tra l’altro, se quello di guardare solo ai sintomi può essere visto come un atteggiamento semplicistico, ad aggravare i rischi di un errore diagnostico c’è il fatto che, per questi tre disturbi dell’arco ansioso, non è nemmeno possibile definire il grado di familiarità. Cioè, dato che in quest’arco si presentano più frequentemente quelle persone i cui familiari prossimi sono stati   soggetti allo stesso tipo di disturbo, non si capisce fino a che punto queste persone ereditano i disturbi per simpatia, per trasmissione genetica o li costruiscono ex novo.
Le caratteristiche di questi disturbi sono, quindi, complesse e contemporanee non esistendo una gerarchia temporale né un ordine discreto per cui dal disturbo più leggero si passi al più invasivo. I sintomi, fisici e psichici, si specificano reciprocamente e si determinano realizzando un accoppiamento strutturale (Maturana e Varela 1984) apparentemente casuale. E si potrebbe ipotizzare che, proprio in questa casualità, si realizzi l'eredità familiare, quella in cui gioca un ruolo importante la … sistematica e prolungata esposizione del bambino ad una figura genitoriale ansiogena (Infrasca, 2006). Già questi soli dati dovrebbero bastare ad orientare l’indagine diagnostica anche sulla relazione almeno quanto sulle componenti neurochimiche. Trascurare l’aspetto relazionale rende molto più difficile individuare le cause a monte di un disturbo di questo genere e, inoltre, comporta il rischio di confondere il sintomo con la malattia. Ancora, si corre il rischio di guardare ai pazienti come se fossero loro stessi il disturbo e non i semplici portatori di eventi (processi) disturbanti le relazioni. Un esempio emblematico può essere quello dell’anginofobia. In questo caso il sintomo portante è la difficoltà di ingoiare alcuni determinati cibi o i cibi in genere. Chi ne soffre si dichiara ovviamente attratto dalla necessità e desiderio di eliminare il sintomo. Di contro, lasciano perplessi quegli interventi che, colludendo con la domanda, vedono solo nella prescrizione medica, intesa ad ottenere una remissione a volte anche evidentemente lontana dal realizzarsi, la soluzione del problema; e ciò anche in evidente assenza di un disturbo d'organo.
Allora, quale lettura diagnostica adottare?

Giuseppe Ciardiello

Bibliografia

 Infrasca, R., "Il disturbo da attacchi di panico", FrancoAngeli Ed., 2006.

 Maturana, H., F., Varela, "L'albero della conoscenza", Garzanti, 1987.