Il corpo del regista o dell’operatore dietro la
macchina da presa fanno parte delle strategie narrative di incorporazione che
si rivelano nel movimento di macchina. Il film è capace di riprodurre i
movimenti del corpo umano, la sua fisicità, le sue forme di attenzione e il
conflitto degli impulsi che ci tengono in bilico tra equilibrio e
disequilibrio. (Gallese, Guerra,2015,pag.145)
Ancora una volta il cinema si
presenta come portatore di istanze e conoscenze psicologiche all’avanguardia!
L’anno di nascita del
cinematografo è lo stesso di quello della psicoanalisi. Nel 1895, mentre a Parigi
veniva proiettato il primo film dei fratelli Lumière, Vienna
vedeva la nascita di L’interpretazione
dei sogni di Freud.
Nel
1977 Christian Metz scrisse Le Signifiant
imaginaire: psychanalyse et cinéma analizzando il linguaggio del cinema da
un punto di vista psicoanalitico, e individuò nello "spostamento" e
nella "condensazione" i meccanismi comuni sia al film che al sogno. In
seguito, nel 2000 con Scritti sul cinema, Cesare Musatti individuò somiglianze
strutturali tra la condizione del sognatore e quella dello spettatore durante
la visione cinematografica. Molti altri autori sono stati affascinati dal media
cinematografico tanto da farne un costante strumento di indagine e/o di
riproduzione della psiche e dei suoi processi inconsci.
Più recentemente,
un nuovo filone di indagine si è proposto agli amanti del cinema e della
psicologia: la possibilità dell’uso del mezzo cinematografico in ambito
psicoterapeutico e didattico. Diversi sono i testi di cinematerapia che,
considerando l’aspetto creativo e artistico del cinema stesso, vengono
annoverati nell’ambito dell’arteterapia.
Da
questo brevissimo escursus il cinema rivela un suo ulteriore aspetto magico:
quello di sopravvivere al passaggio del tempo realizzando gli analoghi processi,
di integrazione e accomodamento, che Piaget individuò nelle prime forme di
apprendimento umano. La capacità di adattamento del cinema, la sua capacità di
contenere e replicare le forme processuali umane di comprensione e
apprendimento, la sua capacità di immergersi nei processi di fantasia e
creatività, ancora prima che la ricerca si pronunci, hanno tutti qualcosa di
magico nell’anticipare, e a volte non di poco, i progressi che poi,
immancabilmente, sono confermati nella maggioranza delle volte dalle successive
sperimentazioni. Tutti i libri sul cinema sottolineano, in un modo o
nell’altro, questa magia così anche Lo
schermo empatico. Cinema e neuroscienze (V. Gallese e M. Guerra, ed. RaffaelloCortina,
2015).
Molto
si è scritto dei processi cerebrali inconsapevoli; inconsapevoli perché
appartenenti ad automatismi d’apprendimento di tipo esperienziale implicito, quale
l’empatia, l’identificazione, la replica, l’imitazione, la proiezione,
l’assimilazione, il rispecchiamento, la scissione ecc. Infine le neuroscienze
intervengono a persuaderci dell’utilizzo precoce, nelle rappresentazioni
filmiche, dei processi di embodyment. Già suggeriti negli anni cinquanta da
Merleau-Ponty, quando la psicologia stentava ancora a parlare dell’empatia, egli
espresse la convinzione che tutti i processi di apprendimento avvenivano a
partire dall’esperienza corporea (oggi diremmo, a partire dalla processazione
degli stimoli che pervengono dalla periferia del corpo). Secondo gli autori de
‘Lo schermo empatico’, le neuroscienze ci suggeriscono che i processi di
simulazione, impiegati dall’organismo umano a livello del sistema cervellocorpo
(l’unificazione dei due termini, cervello e corpo, non è un refuso), sono
analoghi ai movimenti della macchina da presa. Come non vedere, per esempio,
nei tentativi di Siodmak (La scala a
chiocciola, 1946, analizzato nel dettaglio nel libro), nel modo di usare lo
strumento di ripresa, come fosse gli occhi di un osservatore umano che si
sposta fisicamente nello spazio? In questi utilizzi sarebbe evidente, il
tentativo del cinema, di utilizzare strumenti e modalità che replicano i modi
in cui viene naturalmente interpretata la realtà e i modi umani in cui avvengono
le sollecitazione degli stati d’animo e dei sentimenti degli spettatori. La simulazione incarnata si realizza, ci
spiegano gli autori, anche quando assistiamo alla proiezione di un film,
attivando processi attentivi primari, di tipo corporeo, che simulano il
movimento e l’intenzione agente. Seppure ce ne fosse ancora bisogno, in queste
affermazioni si può cogliere un’ulteriore sollecitazione a sostegno dell’uso
del media cinematografico anche nelle scuole di psicoterapia. In alcune questo media
è già ampiamente utilizzato per agire esercitazioni di analisi e individuazioni
diagnostiche e caratteriali.
Specialmente
per le scuole corporee, come la SIAR,
dove si sostiene che i processi cognitivi si realizzano in simbiosi con gli stati
corporei, il cinema assume un valore strumentale particolare in quanto è in
grado di produrre quegli effetti particolari che, in merito alla didattica clinica
e analitica, si possono solo descrivere
e non sperimentare. Ci si riferisce, per esempio, ai processi di
identificazione che, stimolati nella normale visione di un film, in condizioni
particolari possono invertire la loro processualità e trasformasi in processi
di disidentificazione. Per esempio, quando la proiezione riguarda lo stesso
spettatore, ripreso poco prima nel ruolo dell’attore, il fatto di imporre la
visione di un unico punto di vista, dovuto all’impiego della telecamera fissa,
obbliga ad una posizione univoca tutto il gruppo di spettatori. L’agito può
diventare oggetto di discussione, perché condiviso, e consentire il confronto
tra sguardo soggettivo (dal di dentro; quello che io sento e so di me) e
pubblico (quello che io so che gli altri vedono di me).
Ulteriormente,
l’effetto della videoconfrontazione
in leggera differita, come può realizzarsi in un’aula e spazio didattico, comporta
per il protagonista un implicito e immediato confronto con un suo reale comportamento.
Questo consente una soggettiva individuazione di elementi personali che possono
anche dispiegarsi in un confronto, a sua volta oggetto di condivisione, con il
gruppo/classe. Alla luce dell’embodyment si può inoltre ipotizzare che, la
visione di un film in cui si è stati protagonisti, possa agevolare
l’individuazione delle caratteristiche personali agite e, quindi, favorire la
consapevolezza sia di quelle da coltivare sia di quelle da modulare
diversamente. È possibile cioè che tale modo di utilizzare il media
cinematografico, possa rappresentare un efficace strumento per realizzare
l’incontro soggettivo dei processi bottom
up con quelli top down, così da
agevolare la costruzione di un modo
d’essere terapeuta assolutamente personale, in alternativa alle icone da
imitare.
Giuseppe Ciardiello
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