CONGRESSO ATTACCAMENTO E TRAUMA.
A
Roma, il 25.26.27/9/2015 si sono avuti tre giorni di intenso lavoro psicologico con amichevole confronto tra i più grossi nomi della letteratura psicologica mondiale.
Ci sono state belle
presentazioni e dibattiti serrati sulla materia terapeutica tra personaggi
famosi che continuano a dedicare la loro vita all’arte/scienza della
psicoterapia. La psicoterapia è una tecnica tra la scienza e l’arte e tanto ha faticato e
fatica per affermarsi in ambito scientifico. I lavori hanno fornito suggerimenti,
impressioni e stimoli da ravvivare il pubblico, allievi e ammiratori, e far
nascere la passione anche per i momenti difficili che ogni terapeuta vive in certe
fasi del proprio lavoro. Le domande solitarie e i dubbi relativi alle
conoscenze che si accumulano, e al sapere che si acquisisce nella pratica
quotidiana, si ridimensionano in queste occasioni in cui ci si rende conto che quei
piccoli problemi sono in realtà grandi ed è la loro grandezza a farci sentire piccoli.
E non c’è tema più grande di quello della definizione della Mente!
Allo
stesso livello di intensità dell’apertura, il convegno si è chiuso con una
domanda che è un ulteriore progetto e spunto per la costruzione di ulteriori
incontri: quale è oggi il ruolo della mente
incarnata relazionale nella stanza di terapia?
In
questa profusione di nomi , Siegel, Schore, Steel, Ogden, Meares, Fonagy,
Tronick e altri, e in un momento in cui si sta rivalutando il corpo umano,
colpisce la mancanza dei rappresentanti reichiani. In ambito psicologico siamo
proprio noi, i seguaci di Reich, che hanno sempre guardato all’organismo come un
complesso sistema energetico autopoietico. Eppure samo proprio noi a
mancare; in un convegno dove si è parlato di corpi che realizzano relazioni
che costruiscono menti, e partecipato da un pubblico numerosissimo, è mancata
la voce di chi da sempre lavora guidato dal concetto di identità funzionale. Questa mancanza dà l’impressione che, mentre
dal versante cognitivo si stanno assorbendo e integrando le valenze corporee,
da parte dei reichiani e terapeuti corporei, non si stanno facendo gli stessi
sforzi di integrazione e validazione delle acquisizioni cognitive. Oppure si ha
l’impressione che, quando si parla di interventi schiettamente terapeutici,
mirati alla risoluzione puramente sintomatica, noi reichiani, forse in
particolare noi italiani, siamo un po’ balbuzienti. Forse perché ci
vincoliamo a un concetto di intervento analitico per il quale riteniamo di
dover lavorare sull’intera personalità e continuiamo a pensare che solo
accidentalmente si possa agire sul sintomo…
Come figli disubbidienti
della psicoanalisi, sembriamo ancora vivere con colpa il diritto di affermare una diversità
epistemica. Non è vero che la terapia passa necessariamente per l’analisi! E
non è vero che la terapia è un suo sottoprodotto. Reich ha iniziato la sua
individuazione epistemica scoprendo il valore del corpo nella dinamica
analitica e ne ha ricavato una forma terapeutica introducendo l’intervento
attivo. Nello stesso modo si interrogava Ferenczi. In un’affermazione un po’ dura possiamo dire che noi reichiani
abbiamo ereditato da Reich anche la nostalgia di appartenere al movimento analitico, e questo
ci vale come vestito ancellare da cui stentiamo a liberarci mentre, per
esempio, anche il movimento psicoanalitico inglese ha saputo vestire gli abiti
della psicoterapia, vedi Doering e Meares tanto per restare nell’ambito del
convegno, quando si è capito la necessità di ridefinire il concetto di trauma.
Forse noi reichiani dovremmo un
po’ rivedere due cose: la prima riguarda la nostra posizione circa gli aspetti cognitivi
e rivalutare l’immaginazione, il pensiero e la fantasia, che tanto contano nel
farci essere speciali nel mondo animale. La seconda sarebbe quella di smettere
di cercare di somigliare alla psicoanalisi. La vegetoterapia ci obbliga a
trattare i sintomi e i traumi espressi nelle dimensioni psicologiche oltre che a guardare nella personalità globale.
Giuseppe Ciardiello
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