giovedì 9 giugno 2016

Dimensioni Psicologiche


Proseguendo il discorso introdotto dall’ultimo articolo di questo blog (Acting, sottoacting, acting di passaggio e dimensioni psicologiche) forse è necessario fornire una definizione delle Dimensioni Psicologiche che, per noi reichiani, non può che avvalersi di un taglio psicofisiologico:

Definizione: “… segnaliamo che l’esperienza percettiva costituisce un elemento portante per lo sviluppo della dimensione psicologica poiché la rappresentazione (prima ancora di ogni interpretazione e riconoscimento) è alla base della costruzione del significato. …segnaliamo che l’unità funzionale non è soltanto il neurone, ma anche i circuiti neuromuscolari, neuro ghiandolari (neuro viscerali e neuroendocrini). Queste sono dunque le strutture funzionali portanti da cui nasce la dimensione psicologica.” (Ruggieri, V. & coll., “Struttura dell’Io tra soggettività e fisiologia corporea”, EUR, 2011). Quindi, se ne può dedurre che a) le DP sono rappresentazioni mentali che b) prendono avvio da stimoli sensoriali.

Se Freud pensava che prima o poi tutti i processi mentali sarebbero stati spiegati dalla biologia, forse non è azzardato dire che Reich è sempre stato più vicino alla fisiologia che alla psicoanalisi. Se questi accostamenti sono ritenuti validi allora lo sforzo di noi reichiani dovrebbe essere quello di cercare continui raccordi tra la fisiologia dell’organismo (processi cerebrali) e i processi mentali che l’accompagnano.

È cercando di restare fedeli a questa ipotesi operativa, con un taglio schiettamente (vegeto) terapeutico piuttosto che analitico, che possiamo leggere gli eventi umani come colorati dalle dimensioni psicologiche (DP) che, corrispondenti ai vissuti personali, sono prodotti riconducibili ai processi mentali.

Come tutti gli abiti che, indossati in circostanze specifiche, svolgono funzioni specifiche, le DP danno forma e colore alle comunicazioni relazionali e corrispondono ai vissuti che accompagnano le posizioni e gli atteggiamenti del corpo (posture, atteggiamenti, toni di voce, intercalari, ritmi, prosodie, ecc.). Si può anche dire che, quando le persone vivono specifiche DP, le manifestano attraverso le proprie modalità comunicative, verbali e non verbali. 


Volendo restare nella metafora dell’abito, le DP corrispondono ai modi personali di porsi in relazione e possono essere viste come singoli capi di abbigliamento indossati a seconda della situazione. Questa discrezionalità relazionale rende le DP individuabili solo mentre si svolge la relazione perché colorano sia il carattere delle persone, sia il carattere della relazione sia l’eventuale disturbo portato (specificandolo nella sua modalità relazionale).

Se ne potrebbe concludere che caratteristiche delle DP siano anche: a) l’ordine con cui si rivelano che è specifico b) della persona per c) le relazioni con cui si manifesta d) quel disturbo particolare.

Per esempio nel disturbo panico le dimensioni normalmente indossate, per rappresentare le difficoltà relazionali, sono quelle della fiducia, dell’appoggio, dell’equilibrio, dell’integrazione, della rabbia e del rilassamento. In queste dimensioni le persone si destreggiano cercando di realizzare performance comportamentali (fisiche e mentali) sempre più definite e affidabili. Le DP, usate per risolvere un’antica difficoltà relazionale, vengono agite e presentate come capi di abbigliamento che ogni carattere dispone in un ordine particolare a seconda della relazione e del momento storico-evolutivo che la relazione sta attraversando.

Perciò si dispiegheranno anche nella relazione analitica e/o terapeutica.

Siccome tutti i caratteri possono manifestare il disturbo panico, o qualunque altro disturbo, lo scopo terapeutico sarà quello di capire il motivo per cui quel carattere, in quel momento di quella relazione, decida di indossare i capi del proprio abbigliamento in quel modo e con quella progressione.

Questa comprensione potrebbe farsi guida della terapia stessa e, nel contempo, aiutare il paziente ad aprire gli occhi sui propri specifici modi di essere in relazione. Divenendo scopo condiviso, l’individuazione e la modifica delle DP renderebbe possibile cambiare i capi di abbigliamento e, alla fine, magari anche l’abito.

Pur essendo vero che ogni psicoterapia preseleziona i pazienti che ad essa si rivolgono, nel senso che esiste una fascinazione dettata dall’epistema di riferimento, le operazioni diagnostiche e terapeutiche che accompagnano l’individuazione e il trattamento delle DP, non può insistere sull’uso rigido di strategie univoche, anche se queste sono storicamente standardizzate. Anche preservando la coerenza interna, un corretto uso della terapia prevede l’impiego strategico più utile ed efficace, in quel momento, degli strumenti di cui si è in possesso. Ciò vale anche nel caso dovesse ritenersi necessaria la modifica strumentale delle operazioni alle quali si è abituati!

Per quanto riguarda la vgt, che si avvale di acting mirati all’analisi (cercano di produrre una ri/sperimentazione delle dimensioni arcaiche e intrapersonali), si tratta d’individuare strategie per trasformare gli acting in esercizi capaci di agire sulle DP relazionali attuali (si tratta di dare un taglio più terapeutico che analitico agli acting).

Volendo fare un esempio esplicativo si riprenda il panico.
Per la prima dimensione, quella della fiducia, dopo aver verificato il rapporto che la persona coltiva con questa dimensione (che tipo di credito riserva alle persone e al terapeuta, quante e quali esperienze di attaccamento/legami ha avuto ed ha ancora, come si alimentano, come è arrivata in terapia, il grado e le forme di autostima ecc.) si dovrebbe cercare d’individuare la strategia maggiormente efficace nel proprio repertorio vegetoterapeutico.
In vgt la fiducia è una dimensione che si realizza fin dai primi incontri per mezzo del dialogo tonico.
Qualunque operazione, gesto o comportamento (verbale e non verbale) è agito in sintonia con la vibrazione che ispira dal paziente a tutti i livelli. Si cerca di intuire quale tono di voce usare, quali parole adottare e quale ritmo può essere più congeniale alla particolare architettura mentale presentata da quella persona in quel momento. Questo atteggiamento è conservato anche nel passaggio al contatto corporeo. Nel contatto terapeutico la fiducia si associa alla dimensione dell’appoggio e ciò, si potrebbe dire, vale per tutti i tipi di psicoterapia al punto che assume un valore sia reale sia metaforico. L’appoggio consiste nella capacità della persona di appoggiarsi (fisicamente e mentalmente) al terapeuta. Una volta consolidata quest’esperienza, la dimensione corrispondente può essere trasferita (e transferita) su di sé (introiettata e incorporata).
Un esempio pratico potrebbe consistere nell’occuparsi delle estremità del corpo, piedi e mani.
Considerando il paziente disteso sul lettino con le ginocchia sollevate, i vissuti possono essere indagati con una puntuale e ripetuta ricognizione effettuata prima e dopo la realizzazione di: un massaggio (ai piedi e/o alle mani), un gioco di ridefinizione dei confini (immaginando di percorrere con una matita il bordo del piede per sentirne l’orma lasciata sul materasso; il terapeuta potrebbe percorrerne il bordo col proprio dito), esercitando una pressione sul ginocchio premendo bene il piede sul materasso, così da far sentire l’impronta e indagandone la consistenza; si può proporre il sollevamento delle gambe, stando distesi sul materasso, tenendo i piedi sollevati per aria con la punta rivolta verso il viso e, mentre si respira, focalizzare l’attenzione in settori e livelli (corporei e mentali) di competenza diversa (per inciso, questa posizione è l’acting di vgt corrispondente al grounding).
Un altro modo per contattare l’appoggio/fiducia è il sostegno della nuca (per una persona sia in posizione supina che eretta). Le stesse sensazioni di calore e fermezza, comunicati dalle mani alla nuca, possono essere evocate anche da una mano sul torace che accompagna il respiro; o anche appoggiando la mano sul collo, sotto la nuca, accompagnando il movimento respiratorio, di stiramento e incurvamento. Il collo si allunga nel momento dell’espirazione e incurva leggermente accompagnando il naturale ogni atto respiratorio. Analogamente si possono accompagnare i movimenti respiratori appoggiando una mano tra le scapole della persona. Questa operazione, estremamente rispettosa ma molto sostenitrice, può essere attuata sia con le persone in posizione distesa, sia prona che in posizione eretta.
Se la posizione supina non è realizzabile (per motivi che, almeno all’inizio della terapia non si possono conoscere, e pur ipotizzando che possano essere riconducibili alla mancanza di fiducia, a problemi di contatto derivanti da traumi affettivi e relazionali ecc.), non essendo pensabile un’imposizione formale, sarà necessario procedere ideando modifiche strutturali degli acting che, pur lasciando invariati i presupposti epistemici della vgt, ne prevedano la realizzazione usando un modo diverso da quello sul lettino (strumento da sempre considerato indispensabile in vgt). In pratica, avendo come obiettivo l’individuazione e la modifica delle DP, queste si possono individuare, indagare, consolidare e trasferire anche con il paziente in posizione eretta, utilizzando le stesse tecniche usate col paziente in posizione supina.
Inoltre, stando in posizione eretta, la persona può più facilmente essere indotta a sperimentare le DP relative all’autoappoggio (stando sui propri piedi) e più agevolmente potrà trasformarle in competenze personali.
Insomma, considerare la possibilità di lavorare per DP, significa cominciare a pensare alla possibilità di adattare la vgt ai sintomi e alle coloriture personali date ad ogni disturbo.
Da questo punto di vista sembra emergere l’interessante idea che l’attenzione alle DP potrebbe stimolare un fruttuoso dibattito, dentro e fuori la vgt, circa l’uso terapeutico degli acting tradizionalmente usati in senso esclusivamente analitico.






Giuseppe Ciardiello


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