Nietzsche – Reich: influenza e differenze
Marcello Mannella
Un’influenza,
a mio avviso determinante, nell’opera di Reich che non è mai stata colta dalla
letteratura critica è rappresentata dalla riflessione filosofica di Nietzsche.
Un motivo di accostamento, anche se esteriore e indiretto, è rappresentato
dalle loro vite maledette, sofferte,
ai margini della cultura accademica e del mondo. Quella di Reich, uomo di
grande energia e volontà, espressione di una struttura di personalità
caratterizzata dalla dominanza di tratti caratteriali coatto-fallici, che lo
portarono a vivere la sua vita nel continuo conflitto, con Freud e la Società
Psicoanalitica Internazionale, con i leaders del Partito Comunista, con
l’autorità giudiziaria statunitense. La sua infanzia e l’adolescenza furono
sofferte a causa della relazione fortemente contrastata con un padre burbero,
violento e autoritario e segnate dal dramma del suicidio prima della madre, a
causa della gelosia del padre, e poi del padre stesso per i terribili sensi di
colpa. Il giovane Reich ebbe parte in causa nel
dramma familiare per aver rivelato al padre la relazione della madre con
uno dei suoi precettori. Reich aveva allora 17 anni e sullo sfondo si stagliava
la tragedia della prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto, trasferitosi
a Vienna, si iscrisse alla facoltà di medicina. I compagni di università, per
la sua intelligenza brillante e carismatica, lo odiavano o lo amavano; d’altra
parte, non era possibile entrare in rapporto di amicizia con lui se non se ne
condividevano le convinzioni politiche, sociali e intellettuali; tale aspetto
della sua personalità lo accompagnerà per tutta la vita.
Si
inserì presto e giovanissimo nella Società Psicoanalitica Viennese;
particolarmente apprezzato da Freud che lo considerava come un figlio
prediletto, divenne uno dei pochi intimi del maestro ed aveva libero accesso a
casa sua. Ma nonostante una relazione che sarebbe durata circa 15 anni, Reich
entrò ben presto in contrasto con Freud e la psicoanalisi per i dissidi teorici sorti intorno alla questione della pulsione
di morte e dell’eziologia delle nevrosi, proponendo però di fatto uno schema
relazionale con le figure che incarnavano l’autorità che si sarebbe sempre
ripetuto nella sua vita. Espulso dal Partito Comunista Tedesco nel 1933 e dalla
Società Psicoanalitica Internazionale nel 1934, incominciò a peregrinare in
numerosi paesi d’Europa, sempre accompagnato da polemiche e conflitti, che
finivano immancabilmente con
l’espulsione. Un periodo di relativa tranquillità lo vive ad Oslo dal
‘35 al ‘39. Ma anche questa stagione di calma ebbe presto termine; fece appena
in tempo a trasferirsi negli Stati Uniti d’America, pochi mesi prima che si
affermasse la barbarie nazista in Europa. L’ingresso in quel paese registra il suo progressivo
isolamento sociale e culturale e vede Reich sempre più assorto nello sviluppo
di un sapere assolutamente estraneo ai consueti parametri del mondo accademico
e scientifico: quello intorno ai caratteri e alle leggi dell’energia orgonica,
al cui studio dedicò tutte le sue forze e risorse economiche. Gli ultimi anni
della sua vita furono progressivamente accompagnati dai crescenti attacchi
persecutori delle società medica, psicoanalitica e psichiatrica americane
che determinarono l’emergere di quegli aspetti paranoici che pure erano latenti da tempo nella sua
personalità. La sua vita si concluse drammaticamente con la morte in carcere in
seguito ad una condanna per aver contravvenuto all’ingiunzione della magistratura
che gli proibiva la vendita degli orac[1],
cioè degli accumulatori di energia orgonica, un’energia che a suo parere era a
fondamento dell’esistenza, e che costituivano uno degli strumenti terapeutici
propri della cosiddetta fase orgonomica
della sua riflessione e pratica terapeutica.
Quella
di Nietzsche, invece, fu la vita di un uomo labile, delicato, disadattato,
espressione di una struttura di personalità caratterizzata da una sensibilità e
da atmosfere proprie dei vissuti intrauterini. Genio precoce – all’età di 24
anni insegnava filologia classica all’Università di Basilea – ed incompreso –
affermava di essere nato postumo –
ruppe ogni rapporto con la cultura accademica. Dopo appena dieci anni dovette
abbandonare l’insegnamento universitario per gravi problemi di salute e da
allora, con il sostegno di una piccola pensione riconosciutagli magnanimamente
dalla stessa università, visse ramingo e
in solitudine, alla ricerca di luoghi e condizioni climatiche in grado di
alleviare le sue terribili sofferenze, sempre animato dalla speranza
continuamente frustrata ma mai sopita, che la sua opera fosse un giorno
riconosciuta e che gli procurasse finalmente quella moltitudine di seguaci a
cui in fondo aveva sempre aspirato. Solo quando era ormai avvolto nel buio
della follia, i suoi libri incominciarono ad acquistare notorietà mondiale e, a
tutt’oggi, egli è probabilmente il filosofo più tradotto e letto nel mondo. La
notorietà della opera si accompagnò a pericolosi fraintendimenti dai quali non
furono aliene le beghe nazionaliste e razziste della sorella Elisabeth che,
divenutane curatrice, la manipolò fino al punto di fare del suo pensiero
l’araldo dell’aberrante ideologia nazista.
Solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso la sua filosofia è
stata riabilitata ed è oggi unanimemente riconosciuta come fondamento non solo
della filosofia ma dell’intera cultura del ‘900.
E’ curioso considerare che il filosofo che
sosteneva di essere dinamite e di
filosofare a colpi di martello, che
si era proclamato l’anticristo e che aveva annunciato l’avvento del superuomo,
non avesse per niente il fisic du rol. Era timido, riservato, solitario. La
miopia lo accompagnò fin da ragazzo e lo condusse, in breve tempo, a una semi
cecità. Per strada non riconosceva le persone se non da vicino; “per scrivere
inforcava un doppio paio di occhiali e usava una visiera verde per proteggere
gli occhi dalla luce. Il suo habitat era la penombra.”[2]
Ma non era solo la miopia a sfinirlo, perché egli soffriva di un male ancora più misterioso e acuto: il mal di
testa. Non aveva che pochi minuti di
autonomia al giorno per leggere e scrivere qualcosa. Nei giorni peggiori, gli
spasmi lo costringevano a tenere l’occhio destro semichiuso per molte ore, gli
attacchi di mal di testa e di vomito ininterrotto duravano anche 4, 5, 6
giorni. Dato tutto ciò non è affatto incredibile che colui che è considerato
uno dei più grandi psicologi di tutti i tempi, precursore della psicoanalisi,
avesse una personalità labile, portato facilmente alla commozione e al pianto e
che nel pianto avesse concluso la sua vita cosciente abbracciando a Torino un
cavallo maltrattato dal suo padrone e chiamandolo maestà.
E’
nell’atteggiamento esistenziale di fondo e sul piano dei contenuti che possiamo
cogliere la profonda influenza di Nietzsche su Reich. Reich conobbe la sua filosofia; in apertura dello scritto Il
Peer Gynt di Ibsen. Conflitti libidici e fantasie deliranti, che
costituiva la relazione per l’ammissione, appena ventiduenne, alla Società
Psicoanalitica di Vienna, troviamo una citazione tratta dal Così parlò
Zarathustra. Secondo la testimonianza della sua seconda moglie Ilse
Hollendorff,[3]
Reich considerava il Così parlò Zarathustra fra i dieci libri che
avrebbe desiderato portare sempre con sé. In Etere, Dio e Diavolo, Reich
esprime nei suoi riguardi un debito di riconoscenza, annoverandolo fra i
precursori del suo pensiero funzionale. Un’opera reichiana che risente dello
stile di Nietzsche (forse non proprio il migliore del linguaggio
letterariamente raffinato del filosofo, quello di un Nietzsche esasperato per
il suo isolamento intellettuale e pertanto aspro e aggressivo) è Ascolta piccolo
uomo, scritto da un Reich sempre più anch’egli esacerbato per i continui
attacchi che la sua opera e la sua persona subiscono con un ritmo sempre più
incalzante. Nietzsche è il filosofo che denuncia la più grande menzogna, quella millenaria di Dio, che ha comportato
il tradimento del corpo e della terra. Egli è il filosofo che denuncia le
distorsioni della cultura occidentale che, con il trionfo della ratio a partire
da Socrate e Platone, e cioè dell’attitudine razionalista rispetto alla vita
che ne mortifica la pienezza e l’immediatezza, prepara l’avvento di un’epoca,
quella del nichilismo, giunto ormai nel nostro tempo al suo compimento. L’epoca
del nichilismo, un’epoca contrassegnata dalla povertà spirituale e dalla
svalutazione di ogni valore, è in pari tempo caratterizzata dall’affermazione
di un particolare tipo antropologico che, spaventato dalla potente e piena
vibrazione della vita, si ammanta delle virtù dell’umiltà e dell’altruismo,
assume la maschera dell’uomo morale e del santo e si rinchiude in un orizzonte
esistenzialmente limitato. Non potrà comunque evitare di cadere preda dello spirito del risentimento, di
quell’atmosfera emozionale, cioè,
caratterizzata dall’invidia e dall’odio distruttivo verso ogni
espressione di vita spontanea e potente.
Nella
Genealogia della morale Nietzsche esercitando l’arte psicologica del
sospetto, mostra l’origine umana, ahi
troppo umana, dei supposti valori morali e spirituali, che piuttosto dunque
che essere espressione della capacità di elevazione spirituale dell’uomo,
scaturiscono dai sui bisogni, immediati e concreti, di rassicurazione e
protezione dagli aspetti angoscianti
dell’esistenza, o piuttosto sono espressione della sua sete di dominio e di
potere. Il filosofo ripercorre, attraverso un’ipotesi storico-metaforica, la
genesi e il trionfo dell’uomo morale. Egli narra pertanto di un tempo, in età
classica, in cui dominava la casta dei
guerrieri che improntava la vita ai valori della forza, della fierezza,
della sessualità, del corpo. La sua equazione di valore era pertanto:buono
uguale forte, bello, uguale caro agli dei. Era questa propriamente la morale dei signori, la morale del si
convinto e potente alla vita. Ma a fianco ad essa nel tempo si delinea un’altra
equazione di valore, quella degli schiavi,
quella cioè di coloro che avendo privilegiato lo spirito di contro al corpo,
invidiosi della sovrabbondanza di vita dei signori, ne rovesciano reattivamente
i valori. Ora buono è ciò che è umile, casto, ciò che comporta la rinuncia di
sé e della vita. Ma, sostiene Nietzsche, la negazione degli istinti del corpo
non significa per ciò stesso la loro scomparsa, ma piuttosto il loro
pervertimento. Ecco pertanto che l’uomo morale, l’uomo che ha negato la potenza
dionisiaca della vita, diviene un essere psichicamente malato, un autotormentato, che non potendo
esprimere liberamente i suoi impulsi, li rivolge all’interno o li manifesta
all’esterno in forma distruttiva e deformata. L’uomo morale non può fare a meno
di esprimere l’odio che nasce dalla sua impotenza esistenziale e psicologica,
l’odio, cioè, dei deboli verso i forti, verso coloro che osano vivere
potentemente e creativamente la vita. Nietzsche è il filosofo che nutre la
speranza dell’avvento di un’oltreumanità che, nell’entusiastica accettazione della
volontà di potenza quale sua essenza,
è capace di affermare e vivere la vita nella sua interezza. Come
non cogliere, allora, le suggestioni della filosofia di Nietzsche nell’opera di
Reich! Il tema nietzscheano del tradimento della terra e del corpo è il tema
reichiano dell’allontanamento dell’uomo dalla sua condizione originaria
naturale che, a causa della paura di vivere, della costitutiva paura del nostro
fragile io di perdere i propri confini nell’esperienza intensa del piacere che
nasce dalla percezione delle proprie correnti vitali, determina la nascita del
carattere, inteso quest’ultimo, come una gabbia volta a bloccare il flusso
spontaneo e naturale del vivere. La comparsa della corazza caratteriale e muscolare
comporta il pervertimento del nucleo
biologico di funzionamento naturale dell’uomo, il suo essere cioè orientato
positivamente alla socialità, alla collaborazione, all’amore e alla conoscenza,
e determina il sorgere di emozioni secondarie e distruttive. Lo spirito del
risentimento nietzscheano trova allora il suo corrispettivo nel concetto
reichiano di peste emozionale, in
quell’atteggiamento proprio dell’uomo corazzato
portato ad uccidere e mortificare la vita dovunque si manifesti
spontaneamente e pienamente. La speranza nietzscheana dell’avvento dell’oltreuomo
è, infine, la speranza reichiana che, almeno per i bambini del futuro, possano darsi condizioni di vita tali da
permettere la strutturazione di una carattere non corazzato, quello genitale, che
improntato alla potenza orgastica li renda capaci di fluire all’unisono con la
vibrazione cosmica orgonica.
Come
può vedersi, gli impianti di fondo della riflessione di Nietzsche e Reich
sembrano sovrapporsi nelle loro linee generali di lettura della condizione
dell’esistenza umana. Ma ora, fra i tanti motivi che li avvicinano, proviamo a
mettere in risalto quello che più degli altri li accomuna e costituisce il
centro della loro riflessione: il tema della accettazione della vita e della
rivalutazione del corpo.
In
un passo del Così parlò Zarathustra - Dei dispregiatori del corpo -
leggiamo:
Ai dispregiatori del
corpo voglio dire una parola. Essi non
devono, secondo me, imparare o insegnare
ricominciando
daccapo, bensì
devono dire addio al proprio corpo
– e così ammutolire.
“Corpo io sono e
anima” – così parla il fanciullo. E perché
non si dovrebbe
parlare come i fanciulli?
Ma il risvegliato e
sapiente dice: corpo io sono in tutto e
per tutto, e
null’altro, e anima non è altro che una parola
per indicare
qualcosa del corpo.
Il corpo è una
grande ragione, una pluralità con un solo senso,
una guerra e una
pace, un gregge e un pastore.
Strumento del tuo
corpo è anche la tua piccola ragione,
fratello, che tu
chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un
giocattolo della tua
grande ragione.
‘Io’ dici tu, e sei
orgoglioso di questa parola. Ma la cosa
ancora più grande,
cui tu non vuoi credere, - il tuo corpo
e la sua grande
ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’.
Ciò che il senso sente e lo spirito conosce,
non ha mai dentro
di sé la propria fine. Ma il senso e lo
spirito vorrebbero
convincerti che loro
sono la fine di tutte le cose: talmente
vanitosi sono essi.
Strumenti e
giocattoli sono il senso e lo spirito: ma dietro
di loro sta ancora
il Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei
sensi, ascolta anche
con gli occhi dello spirito.
Sempre il Sé ascolta
e cerca: esso compara costringe, conquista,
distrugge. Esso
domina ed è il signore anche dell’io.
Dietro i tuoi pensieri
e sentimenti, fratello, un possente
sovrano, un saggio
ignoto – che si chiama Sé. Abita nel
tuo corpo, è il tuo
corpo. […][4]
In
Nietzsche, dunque, il corpo non appare più confinato nella realtà della res
extensa cartesiana, ma diventa il luogo della vita e della conoscenza. L’uomo
non è realtà spirituale, res cogitans, scissa dal corpo; è essere corporeo in
tutto per tutto, anche nelle attività spirituali. Perciò l’idea dell’esistenza
di un puro mentale, di una mente separata dal corpo, è uno dei più grandi
errori della storia della cultura occidentale che il filosofo si propone di
destituire di valore. Reich non può che essere d’accordo con tale visione e considerazione
dell’uomo. Egli fu tra i primi psicoanalisti ad affermare l’identità funzionale
di corpo e mente e con lui avviene l’ingresso del corpo nella psicoanalisi.
Per
comprendere come Reich sia pervenuto a definire la sua tecnica terapeutica
occorre considerare le condizioni di crisi in cui versava la terapia
psicoanalitica negli anni ’20 del secolo scorso. Reich avvertì in maniera acuta
tale crisi e condivise con altre grandi personalità, come Rank e Ferenczi,
l’esigenza di battere nuove strade, di andare oltre la cura parlata per un metodo terapeutico più efficace. Un momento
decisivo del suo itinerario di ricerca è rappresentato dalla scoperta
dell’ancoraggio delle strutture caratteriali in equivalenti strutture
muscolari, di quel concetto di identità funzionale fra mente e corpo che
avrebbe comportato importanti modificazioni nella pratica terapeutica con la
definizione della tecnica che va sotto il nome di Vegetoterapia Analitico-Caratteriale.
Reich cominciò a proporre ai pazienti
l’assunzione di posture e movimenti mirati, simili per quanto possibile ai
nostri comportamenti primari, volti a far rivivere emotivamente i momenti
decisivi della loro storia infantile. In questo modo era possibile prendere
coscienza ed elaborare i propri tratti caratteriali, cioè i segni incisi che
costituiscono il precipitato dei nostri vissuti relazionali primari nelle varie
fasi dello sviluppo evolutivo e che nel loro insieme definiscono la specifica
forma di una determinata struttura di personalità. Il rivivere i vissuti
cristallizzati nel nostro corpo permetteva di sperimentare e definire nuove
modalità comportamentali e di modificare pertanto le proiezioni cerebrali di
quegli stessi vissuti attraverso un continuo rimando di informazioni fra la
periferia del corpo e la struttura celebrale.
Fin
qui, dunque, abbiamo considerato l’influenza di Nietzsche su Reich e i
molteplici motivi condivisi. Reputo che questa breve disamina non sarebbe però
completa se non volgessimo l’attenzione
anche a quei motivi di differenza che ritengo posseggano un’importante valenza
ai fini della nostro discorso riguardo al corpo. Un motivo di differenza è
innanzitutto rappresentato dalle loro diverse considerazioni intorno alla sua
natura. Reich è legato alla concezione illuministica di una natura umana
biologicamente stabile e definita fin dal suo sorgere, armoniosa e
meravigliosamente semplice così com’era semplice e immutabile la natura
dell’universo descritta da Newton. Egli
riprende e accentua il modello energetico-pulsionale della mente proprio della
psicoanalisi classica e considera l’essere dell’uomo come corredato
positivamente da un nucleo naturale di
funzionamento. Da questi presupposti concettuali deriva inevitabilmente che
ogni distorsione, ogni disarmonia e dissonanza comportamentale, ogni malattia,
non possono che essere conseguenza dell’interferenza sociale; ecco perché egli
è pervenuto ad un considerazione pressoché esclusivamente negativa del
carattere e perché il suo progetto terapeutico sia rivolto quasi esclusivamente
a togliere, sciogliere, abbattere, liberare; non c’è null’altro da fare, nulla
da aggiungere, ma solo ristabilire la compiutezza e la perfezione del dato
naturale. Condizionato dalla sua visione antropologica naturalistica, convinto
che le emozioni non abbiano bisogno di essere educate e modellate in quanto
posseggono una forma e una direzionalità armoniosa e naturale, Reich non riesce
ad avvertire la necessità precipuamente umana di impegnarsi nella costruzione
del proprio ordine interiore. Il compito dell’uomo, la sua responsabilità è,
per così dire, solo negativa: lasciare svolgere e accadere ciò che è dato per
natura. In Bambini del futuro
sostiene che compito basilare dell’educazione è quello di rimuovere gli
ostacoli che si presentano alla loro produttività naturale innata[5].
La
visione di Nietzsche è radicalmente diversa. Agli occhi del filosofo la vita si rivela
priva di ordine; il mondo non ha uno scopo, anzi danza sui piedi del caso, tutto è caos, molteplicità, divenire
senza meta, caso e necessità insieme. In un mondo siffatto la stessa interiorità
umana non presenta i caratteri dell’unità e della coerenza, ma risulta animata
da un continuo flusso e riflusso di
impulsi in perenne contrasto fra loro. Ma la vita per il filosofo è,
soprattutto, nella sua più intima essenza volontà di potenza, intesa come
capacità continua di generare dal caos e dal disordine forme sempre nuove di
ordine e di senso; essa è un’opera d’arte
che genera se stessa. Qui Nietzsche anticipa temi e motivi propri del
pensiero sistemico e complesso, come la teoria delle strutture dissipative di
Prigogine[6]
e il concetto di autopoiesi di Maturana e Varela[7]. E’ nell’oltreuomo che la volontà di potenza,
l’essenza creatrice della vita, trova la sua espressione più alta. Nello scritto Della vittoria su
se stessi, nel Così parlò Zarathustra, Nietzsche afferma che bisogna
esercitare la propria volontà di potenza, cioè la volontà di superare se stessi
attraverso il movimento di governare, trasformare, educare i propri impulsi ed
emozioni. Non si tratta di negarli, di rimuoverli, ma di impiegarli; un uomo
privo di forti impulsi, a suo parere infatti, non sarebbe in grado di creare
nulla di importante e di bello. L’esercizio della volontà di potenza, è
propriamente parlando, il segno distintivo dell’oltreuomo, di colui che fa
della sua vita un’opera d’arte, una creazione estetica e che proprio per questo
perviene alla definizione di una propria tavola dei valori. Per Nietzsche,
dunque, la verità dell’uomo, la sua armonia, il suo ordine e la sua misura, non
sono un dato naturale che occorre svelare e proteggere, ma piuttosto un punto
d’arrivo, mai stabile e definitivo; una costruzione che scaturisce dall’impegno
verso se stessi e l’esistenza a cui ogni uomo è chiamato lungo l’intero corso
della propria vita. Nietzsche è un esponente di una posizione filosofica, il
cosiddetto pensiero debole, che
riconosce e accetta la relatività, la molteplicità e la storicità, delle nostre
affermazioni. Nel Crepuscolo degli idoli, il filosofo afferma che morto Dio, la verità, il fondamento
stabile e sovrasensibile del mondo, il mondo stesso viene a configurarsi come
favola, racconto, libero gioco e confronto delle interpretazioni. Il valore e
la verità pertanto non sono più considerate proprietà delle cose, ma è l’uomo a
creare e porre valore alle cose. Non per caso egli si chiama uomo, cioè colui che valuta.
Reich,
al contrario, si colloca nel solco del cosiddetto pensiero forte, di quella posizione di pensiero che considera la verità come qualcosa di
stabile ed esterna all’uomo, che l’uomo deve impegnarsi a trovare. Certo, la
verità di cui egli parla non è quella di un principio spirituale o metafisico,
ma della realtà della natura, che concepita però come un ordine stabile e
definito, con proprie poche leggi e regolarità, assume caratteri sostanziali.
Reich finisce così, inavvertitamente, per proporci una nuova metafisica della
natura. La storia della riflessione e pratica terapeutica psicoanalitica era
cominciata sotto il segno del pensiero
forte. Fin dalle sue origini, fin dagli Studi sull’isteria di Breuer
e Freud, il fine dell’indagine psicoanalitica era quello di individuare la
verità dei traumi infantili responsabili della formazione delle affezioni
nevrotiche. L’attività psicoanalitica era simile a quella dell’archeologo che
scava sempre più in profondità fino a portare alla luce le vestigia del
passato. La psicoanalisi, fuor di metafora, doveva scoprire le verità dolorose
dell’infanzia e nel riportarle alla coscienza provocare la loro catarsi. Col
passare del tempo, Freud maturò nuove convinzioni. In un piccolo saggio
intitolato Costruzioni nell’analisi, piuttosto che parlare di
ricostruzione della vera storia dell’infanzia del paziente, egli considerava
l’analisi come un lavoro di costruzione del passato. Non bisognava più
preoccuparsi di portare alla luce i supposti accadimenti reali, quanto
piuttosto di aiutare il paziente a costruire la verità della sua storia
attraverso la creazione di nuovi e consapevoli nessi fra i frammenti del suo
passato La verità era allora costruita
dall’analisi e nasceva dal gioco delle interpretazioni che accadeva nel dialogo
fra l’analista e l’analizzato, e in quanto tale era espressione di una
posizione debole di pensiero.
Anche il modello teorico post-reichiano della
SIAR si colloca nel solco della
tradizione del pensiero debole. Il
setting analitico è considerato come un sistema complesso, come una forma
vivente che nasce dall’incontro fra i tratti caratteriali dell’analista e i
tratti caratteriali dell’analizzato. Un analista non è uno specchio neutro ma è
implicato profondamente nella relazione. Sarà proprio la sua capacità di
entrare in contatto a consentire il sorgere di quell’alleanza terapeutica
fondamentale perché si dia la possibilità di uno sviluppo coevolutivo.
L’interazione fra i diversi transfert e controtransfert consentendo una
maggiore vitalità del paziente, determinerà importanti mutamenti nella sua
struttura di carattere. In altre parole, l’interazione con l’analista consente
al paziente una più ampia capacità di oscillazione e di sperimentare nuove e
diverse possibilità di espressione di sé e di relazionarsi diversamente al
mondo. Anche per la SIAR, dunque, la verità che accade nel setting non è una
verità svelata ma una verità costruita, la creazione autopoietica del paziente.
[1]
W. Reich, Biopatia del cancro, Sugarco.
[2]
M. Fini, Nietzsche – L’apolide dell’esistenza, Marsilio, pp. 20/1
[3]
I. Ollendorff, Wilhelm Reich. Biografia da vicino, La Salamandra
[4]
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, p. 33
[5]
W. Reich, Bambini del futuro, Sugarco.
[6]
I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza, Einaudi
[7]
H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti
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