sabato 1 marzo 2014

Nietzsche - Reich: influenza e differenze di Marcello Mannella



Nietzsche – Reich: influenza e differenze
Marcello Mannella


Un’influenza, a mio avviso determinante, nell’opera di Reich che non è mai stata colta dalla letteratura critica è rappresentata dalla riflessione filosofica di Nietzsche. Un motivo di accostamento, anche se esteriore e indiretto, è rappresentato dalle loro vite maledette, sofferte, ai margini della cultura accademica e del mondo. Quella di Reich, uomo di grande energia e volontà, espressione di una struttura di personalità caratterizzata dalla dominanza di tratti caratteriali coatto-fallici, che lo portarono a vivere la sua vita nel continuo conflitto, con Freud e la Società Psicoanalitica Internazionale, con i leaders del Partito Comunista, con l’autorità giudiziaria statunitense. La sua infanzia e l’adolescenza furono sofferte a causa della relazione fortemente contrastata con un padre burbero, violento e autoritario e segnate dal dramma del suicidio prima della madre, a causa della gelosia del padre, e poi del padre stesso per i terribili sensi di colpa. Il giovane Reich ebbe parte in causa nel  dramma familiare per aver rivelato al padre la relazione della madre con uno dei suoi precettori. Reich aveva allora 17 anni e sullo sfondo si stagliava la tragedia della prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto, trasferitosi a Vienna, si iscrisse alla facoltà di medicina. I compagni di università, per la sua intelligenza brillante e carismatica, lo odiavano o lo amavano; d’altra parte, non era possibile entrare in rapporto di amicizia con lui se non se ne condividevano le convinzioni politiche, sociali e intellettuali; tale aspetto della sua personalità lo accompagnerà per tutta la vita.
Si inserì presto e giovanissimo nella Società Psicoanalitica Viennese; particolarmente apprezzato da Freud che lo considerava come un figlio prediletto, divenne uno dei pochi intimi del maestro ed aveva libero accesso a casa sua. Ma nonostante una relazione che sarebbe durata circa 15 anni, Reich entrò ben presto in contrasto con Freud e la psicoanalisi per i dissidi teorici  sorti intorno alla questione della pulsione di morte e dell’eziologia delle nevrosi, proponendo però di fatto uno schema relazionale con le figure che incarnavano l’autorità che si sarebbe sempre ripetuto nella sua vita. Espulso dal Partito Comunista Tedesco nel 1933 e dalla Società Psicoanalitica Internazionale nel 1934, incominciò a peregrinare in numerosi paesi d’Europa, sempre accompagnato da polemiche e conflitti, che finivano immancabilmente con  l’espulsione. Un periodo di relativa tranquillità lo vive ad Oslo dal ‘35 al ‘39. Ma anche questa stagione di calma ebbe presto termine; fece appena in tempo a trasferirsi negli Stati Uniti d’America, pochi mesi prima che si affermasse la barbarie nazista in Europa. L’ingresso  in quel paese registra il suo progressivo isolamento sociale e culturale e vede Reich sempre più assorto nello sviluppo di un sapere assolutamente estraneo ai consueti parametri del mondo accademico e scientifico: quello intorno ai caratteri e alle leggi dell’energia orgonica, al cui studio dedicò tutte le sue forze e risorse economiche. Gli ultimi anni della sua vita furono progressivamente accompagnati dai crescenti attacchi persecutori delle società medica, psicoanalitica e psichiatrica  americane  che determinarono l’emergere di quegli aspetti paranoici  che pure erano latenti da tempo nella sua personalità. La sua vita si concluse drammaticamente con la morte in carcere in seguito ad una condanna per aver contravvenuto all’ingiunzione della magistratura che gli proibiva la vendita degli orac[1], cioè degli accumulatori di energia orgonica, un’energia che a suo parere era a fondamento dell’esistenza, e che costituivano uno degli strumenti terapeutici propri della  cosiddetta fase orgonomica della sua riflessione e pratica terapeutica.
Quella di Nietzsche, invece, fu la vita di un uomo labile, delicato, disadattato, espressione di una struttura di personalità caratterizzata da una sensibilità e da atmosfere proprie dei vissuti intrauterini. Genio precoce – all’età di 24 anni insegnava filologia classica all’Università di Basilea – ed incompreso – affermava di essere nato postumo – ruppe ogni rapporto con la cultura accademica. Dopo appena dieci anni dovette abbandonare l’insegnamento universitario per gravi problemi di salute e da allora, con il sostegno di una piccola pensione riconosciutagli magnanimamente dalla stessa università,  visse ramingo e in solitudine, alla ricerca di luoghi e condizioni climatiche in grado di alleviare le sue terribili sofferenze, sempre animato dalla speranza continuamente frustrata ma mai sopita, che la sua opera fosse un giorno riconosciuta e che gli procurasse finalmente quella moltitudine di seguaci a cui in fondo aveva sempre aspirato. Solo quando era ormai avvolto nel buio della follia, i suoi libri incominciarono ad acquistare notorietà mondiale e, a tutt’oggi, egli è probabilmente il filosofo più tradotto e letto nel mondo. La notorietà della opera si accompagnò a pericolosi fraintendimenti dai quali non furono aliene le beghe nazionaliste e razziste della sorella Elisabeth che, divenutane curatrice, la manipolò fino al punto di fare del suo pensiero l’araldo dell’aberrante ideologia nazista.  Solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso la sua filosofia è stata riabilitata ed è oggi unanimemente riconosciuta come fondamento non solo della filosofia ma dell’intera cultura del ‘900.
 E’ curioso considerare che il filosofo che sosteneva di essere dinamite e di filosofare a colpi di martello, che si era proclamato l’anticristo e che aveva annunciato l’avvento del superuomo, non avesse per niente il fisic du rol. Era timido, riservato, solitario. La miopia lo accompagnò fin da ragazzo e lo condusse, in breve tempo, a una semi cecità. Per strada non riconosceva le persone se non da vicino; “per scrivere inforcava un doppio paio di occhiali e usava una visiera verde per proteggere gli occhi dalla luce. Il suo habitat era la penombra.”[2] Ma non era solo la miopia a sfinirlo, perché egli soffriva di un male  ancora più misterioso e acuto: il mal di testa. Non aveva che  pochi minuti di autonomia al giorno per leggere e scrivere qualcosa. Nei giorni peggiori, gli spasmi lo costringevano a tenere l’occhio destro semichiuso per molte ore, gli attacchi di mal di testa e di vomito ininterrotto duravano anche 4, 5, 6 giorni. Dato tutto ciò non è affatto incredibile che colui che è considerato uno dei più grandi psicologi di tutti i tempi, precursore della psicoanalisi, avesse una personalità labile, portato facilmente alla commozione e al pianto e che nel pianto avesse concluso la sua vita cosciente abbracciando a Torino un cavallo maltrattato dal suo padrone e chiamandolo maestà.
E’ nell’atteggiamento esistenziale di fondo e sul piano dei contenuti che possiamo cogliere la profonda influenza di Nietzsche su Reich. Reich conobbe  la sua filosofia; in apertura dello scritto Il Peer Gynt di Ibsen. Conflitti libidici e fantasie deliranti, che costituiva la relazione per l’ammissione, appena ventiduenne, alla Società Psicoanalitica di Vienna, troviamo una citazione tratta dal Così parlò Zarathustra. Secondo la testimonianza della sua seconda moglie Ilse Hollendorff,[3] Reich considerava il Così parlò Zarathustra fra i dieci libri che avrebbe desiderato portare sempre con sé. In Etere, Dio e Diavolo, Reich esprime nei suoi riguardi un debito di riconoscenza, annoverandolo fra i precursori del suo pensiero funzionale. Un’opera reichiana che risente dello stile di Nietzsche (forse non proprio il migliore del linguaggio letterariamente raffinato del filosofo, quello di un Nietzsche esasperato per il suo isolamento intellettuale e pertanto aspro e aggressivo) è Ascolta piccolo uomo, scritto da un Reich sempre più anch’egli esacerbato per i continui attacchi che la sua opera e la sua persona subiscono con un ritmo sempre più incalzante. Nietzsche è il filosofo che denuncia la più grande menzogna, quella millenaria di Dio, che ha comportato il tradimento del corpo e della terra. Egli è il filosofo che denuncia le distorsioni della cultura occidentale che, con il trionfo della ratio a partire da Socrate e Platone, e cioè dell’attitudine razionalista rispetto alla vita che ne mortifica la pienezza e l’immediatezza, prepara l’avvento di un’epoca, quella del nichilismo, giunto ormai nel nostro tempo al suo compimento. L’epoca del nichilismo, un’epoca contrassegnata dalla povertà spirituale e dalla svalutazione di ogni valore, è in pari tempo caratterizzata dall’affermazione di un particolare tipo antropologico che, spaventato dalla potente e piena vibrazione della vita, si ammanta delle virtù dell’umiltà e dell’altruismo, assume la maschera dell’uomo morale e del santo e si rinchiude in un orizzonte esistenzialmente limitato. Non potrà comunque evitare di cadere preda dello spirito del risentimento, di quell’atmosfera emozionale, cioè,  caratterizzata dall’invidia e dall’odio distruttivo verso ogni espressione di vita spontanea e potente.
Nella Genealogia della morale Nietzsche esercitando l’arte psicologica del sospetto, mostra l’origine umana, ahi troppo umana, dei supposti valori morali e spirituali, che piuttosto dunque che essere espressione della capacità di elevazione spirituale dell’uomo, scaturiscono dai sui bisogni, immediati e concreti, di rassicurazione e protezione  dagli aspetti angoscianti dell’esistenza, o piuttosto sono espressione della sua sete di dominio e di potere. Il filosofo ripercorre, attraverso un’ipotesi storico-metaforica, la genesi e il trionfo dell’uomo morale. Egli narra pertanto di un tempo, in età classica, in cui dominava la casta dei guerrieri che improntava la vita ai valori della forza, della fierezza, della sessualità, del corpo. La sua equazione di valore era pertanto:buono uguale forte, bello, uguale caro agli dei. Era questa propriamente la morale dei signori, la morale del si convinto e potente alla vita. Ma a fianco ad essa nel tempo si delinea un’altra equazione di valore, quella degli schiavi, quella cioè di coloro che avendo privilegiato lo spirito di contro al corpo, invidiosi della sovrabbondanza di vita dei signori, ne rovesciano reattivamente i valori. Ora buono è ciò che è umile, casto, ciò che comporta la rinuncia di sé e della vita. Ma, sostiene Nietzsche, la negazione degli istinti del corpo non significa per ciò stesso la loro scomparsa, ma piuttosto il loro pervertimento. Ecco pertanto che l’uomo morale, l’uomo che ha negato la potenza dionisiaca della vita, diviene un essere psichicamente malato, un autotormentato, che non potendo esprimere liberamente i suoi impulsi, li rivolge all’interno o li manifesta all’esterno in forma distruttiva e deformata. L’uomo morale non può fare a meno di esprimere l’odio che nasce dalla sua impotenza esistenziale e psicologica, l’odio, cioè, dei deboli verso i forti, verso coloro che osano vivere potentemente e creativamente la vita. Nietzsche è il filosofo che nutre la speranza dell’avvento di un’oltreumanità che, nell’entusiastica accettazione della volontà di potenza quale sua essenza, è  capace di affermare  e vivere la vita nella sua interezza. Come non cogliere, allora, le suggestioni della filosofia di Nietzsche nell’opera di Reich! Il tema nietzscheano del tradimento della terra e del corpo è il tema reichiano dell’allontanamento dell’uomo dalla sua condizione originaria naturale che, a causa della paura di vivere, della costitutiva paura del nostro fragile io di perdere i propri confini nell’esperienza intensa del piacere che nasce dalla percezione delle proprie correnti vitali, determina la nascita del carattere, inteso quest’ultimo, come una gabbia volta a bloccare il flusso spontaneo e naturale del vivere. La comparsa della corazza caratteriale e muscolare comporta il pervertimento del nucleo biologico di funzionamento naturale dell’uomo, il suo essere cioè orientato positivamente alla socialità, alla collaborazione, all’amore e alla conoscenza, e determina il sorgere di emozioni secondarie e distruttive. Lo spirito del risentimento nietzscheano trova allora il suo corrispettivo nel concetto reichiano di peste emozionale, in quell’atteggiamento proprio dell’uomo corazzato  portato ad uccidere e mortificare la vita dovunque si manifesti spontaneamente e pienamente. La speranza nietzscheana dell’avvento dell’oltreuomo è, infine, la speranza reichiana che, almeno per i bambini del futuro, possano darsi condizioni di vita tali da permettere la strutturazione di una carattere non corazzato, quello genitale, che improntato alla potenza orgastica li renda capaci di fluire all’unisono con la vibrazione cosmica orgonica.
Come può vedersi, gli impianti di fondo della riflessione di Nietzsche e Reich sembrano sovrapporsi nelle loro linee generali di lettura della condizione dell’esistenza umana. Ma ora, fra i tanti motivi che li avvicinano, proviamo a mettere in risalto quello che più degli altri li accomuna e costituisce il centro della loro riflessione: il tema della accettazione della vita e della rivalutazione del corpo.
In un passo del Così parlò Zarathustra - Dei dispregiatori del corpo - leggiamo:
Ai dispregiatori del corpo voglio dire una parola. Essi non
 devono, secondo me, imparare o insegnare ricominciando
daccapo, bensì devono dire addio al proprio corpo
 – e così ammutolire.
“Corpo io sono e anima” – così parla il fanciullo. E perché
non si dovrebbe parlare come i fanciulli?
Ma il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e
per tutto, e null’altro, e anima non è altro che una parola
per indicare qualcosa del corpo.
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso,
una guerra e una pace, un gregge e un pastore.
Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione,
fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un
giocattolo della tua grande ragione.
‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa
ancora più grande, cui tu non vuoi credere, - il tuo corpo
e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’.
 Ciò che il senso sente e lo spirito conosce, non ha mai dentro
 di sé la propria fine. Ma il senso e lo spirito vorrebbero
convincerti che loro sono la fine di tutte le cose: talmente
vanitosi sono essi.
Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito: ma dietro
di loro sta ancora il Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei
sensi, ascolta anche con gli occhi dello spirito.
Sempre il Sé ascolta e cerca: esso compara costringe, conquista,
distrugge. Esso domina ed è il signore anche dell’io.
Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, un possente
sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel
tuo corpo, è il tuo corpo. […][4]
In Nietzsche, dunque, il corpo non appare più confinato nella realtà della res extensa cartesiana, ma diventa il luogo della vita e della conoscenza. L’uomo non è realtà spirituale, res cogitans, scissa dal corpo; è essere corporeo in tutto per tutto, anche nelle attività spirituali. Perciò l’idea dell’esistenza di un puro mentale, di una mente separata dal corpo, è uno dei più grandi errori della storia della cultura occidentale che il filosofo si propone di destituire di valore. Reich non può che essere d’accordo con tale visione e considerazione dell’uomo. Egli fu tra i primi psicoanalisti ad affermare l’identità funzionale di corpo e mente e con lui avviene l’ingresso del corpo nella psicoanalisi.
Per comprendere come Reich sia pervenuto a definire la sua tecnica terapeutica occorre considerare le condizioni di crisi in cui versava la terapia psicoanalitica negli anni ’20 del secolo scorso. Reich avvertì in maniera acuta tale crisi e condivise con altre grandi personalità, come Rank e Ferenczi, l’esigenza di battere nuove strade, di andare oltre la cura parlata per un metodo terapeutico più efficace. Un momento decisivo del suo itinerario di ricerca è rappresentato dalla scoperta dell’ancoraggio delle strutture caratteriali in equivalenti strutture muscolari, di quel concetto di identità funzionale fra mente e corpo che avrebbe comportato importanti modificazioni nella pratica terapeutica con la definizione della tecnica che va sotto il nome di Vegetoterapia Analitico-Caratteriale. Reich cominciò  a proporre ai pazienti l’assunzione di posture e movimenti mirati, simili per quanto possibile ai nostri comportamenti primari, volti a far rivivere emotivamente i momenti decisivi della loro storia infantile. In questo modo era possibile prendere coscienza ed elaborare i propri tratti caratteriali, cioè i segni incisi che costituiscono il precipitato dei nostri vissuti relazionali primari nelle varie fasi dello sviluppo evolutivo e che nel loro insieme definiscono la specifica forma di una determinata struttura di personalità. Il rivivere i vissuti cristallizzati nel nostro corpo permetteva di sperimentare e definire nuove modalità comportamentali e di modificare pertanto le proiezioni cerebrali di quegli stessi vissuti attraverso un continuo rimando di informazioni fra la periferia del corpo e la struttura celebrale.
Fin qui, dunque, abbiamo considerato l’influenza di Nietzsche su Reich e i molteplici motivi condivisi. Reputo che questa breve disamina non sarebbe però completa se non volgessimo  l’attenzione anche a quei motivi di differenza che ritengo posseggano un’importante valenza ai fini della nostro discorso riguardo al corpo. Un motivo di differenza è innanzitutto rappresentato dalle loro diverse considerazioni intorno alla sua natura. Reich è legato alla concezione illuministica di una natura umana biologicamente stabile e definita fin dal suo sorgere, armoniosa e meravigliosamente semplice così com’era semplice e immutabile la natura dell’universo descritta da Newton.  Egli riprende e accentua il modello energetico-pulsionale della mente proprio della psicoanalisi classica e considera l’essere dell’uomo come corredato positivamente da un nucleo naturale di funzionamento. Da questi presupposti concettuali deriva inevitabilmente che ogni distorsione, ogni disarmonia e dissonanza comportamentale, ogni malattia, non possono che essere conseguenza dell’interferenza sociale; ecco perché egli è pervenuto ad un considerazione pressoché esclusivamente negativa del carattere e perché il suo progetto terapeutico sia rivolto quasi esclusivamente a togliere, sciogliere, abbattere, liberare; non c’è null’altro da fare, nulla da aggiungere, ma solo ristabilire la compiutezza e la perfezione del dato naturale. Condizionato dalla sua visione antropologica naturalistica, convinto che le emozioni non abbiano bisogno di essere educate e modellate in quanto posseggono una forma e una direzionalità armoniosa e naturale, Reich non riesce ad avvertire la necessità precipuamente umana di impegnarsi nella costruzione del proprio ordine interiore. Il compito dell’uomo, la sua responsabilità è, per così dire, solo negativa: lasciare svolgere e accadere ciò che è dato per natura.  In Bambini del futuro sostiene che compito basilare dell’educazione è quello di rimuovere gli ostacoli che si presentano alla loro produttività naturale innata[5].
La visione di Nietzsche è radicalmente diversa. Agli occhi del filosofo la vita si rivela priva di ordine; il mondo non ha uno scopo, anzi danza sui piedi del caso, tutto è caos, molteplicità, divenire senza meta, caso e necessità insieme. In un mondo siffatto la stessa interiorità umana non presenta i caratteri dell’unità e della coerenza, ma risulta animata da un continuo  flusso e riflusso di impulsi in perenne contrasto fra loro. Ma la vita per il filosofo è, soprattutto, nella sua più intima essenza volontà di potenza, intesa come capacità continua di generare dal caos e dal disordine forme sempre nuove di ordine e di senso; essa è un’opera d’arte che genera se stessa. Qui Nietzsche anticipa temi e motivi propri del pensiero sistemico e complesso, come la teoria delle strutture dissipative di Prigogine[6] e il concetto di autopoiesi di Maturana e Varela[7].  E’ nell’oltreuomo che la volontà di potenza, l’essenza creatrice della vita, trova la sua espressione  più alta. Nello scritto Della vittoria su se stessi, nel Così parlò Zarathustra, Nietzsche afferma che bisogna esercitare la propria volontà di potenza, cioè la volontà di superare se stessi attraverso il movimento di governare, trasformare, educare i propri impulsi ed emozioni. Non si tratta di negarli, di rimuoverli, ma di impiegarli; un uomo privo di forti impulsi, a suo parere infatti, non sarebbe in grado di creare nulla di importante e di bello. L’esercizio della volontà di potenza, è propriamente parlando, il segno distintivo dell’oltreuomo, di colui che fa della sua vita un’opera d’arte, una creazione estetica e che proprio per questo perviene alla definizione di una propria tavola dei valori. Per Nietzsche, dunque, la verità dell’uomo, la sua armonia, il suo ordine e la sua misura, non sono un dato naturale che occorre svelare e proteggere, ma piuttosto un punto d’arrivo, mai stabile e definitivo; una costruzione che scaturisce dall’impegno verso se stessi e l’esistenza a cui ogni uomo è chiamato lungo l’intero corso della propria vita. Nietzsche è un esponente di una posizione filosofica, il cosiddetto pensiero debole, che riconosce e accetta la relatività, la molteplicità e la storicità, delle nostre affermazioni. Nel Crepuscolo degli idoli, il filosofo afferma che morto Dio, la verità, il fondamento stabile e sovrasensibile del mondo, il mondo stesso viene a configurarsi come favola, racconto, libero gioco e confronto delle interpretazioni. Il valore e la verità pertanto non sono più considerate proprietà delle cose, ma è l’uomo a creare e porre valore alle cose. Non per caso egli si chiama uomo, cioè colui che valuta. 
Reich, al contrario, si colloca nel solco del cosiddetto pensiero forte, di quella posizione di pensiero  che considera la verità come qualcosa di stabile ed esterna all’uomo, che l’uomo deve impegnarsi a trovare. Certo, la verità di cui egli parla non è quella di un principio spirituale o metafisico, ma della realtà della natura, che concepita però come un ordine stabile e definito, con proprie poche leggi e regolarità, assume caratteri sostanziali. Reich finisce così, inavvertitamente, per proporci una nuova metafisica della natura. La storia della riflessione e pratica terapeutica psicoanalitica era cominciata sotto il segno del pensiero forte. Fin dalle sue origini, fin dagli Studi sull’isteria di Breuer e Freud, il fine dell’indagine psicoanalitica era quello di individuare la verità dei traumi infantili responsabili della formazione delle affezioni nevrotiche. L’attività psicoanalitica era simile a quella dell’archeologo che scava sempre più in profondità fino a portare alla luce le vestigia del passato. La psicoanalisi, fuor di metafora, doveva scoprire le verità dolorose dell’infanzia e nel riportarle alla coscienza provocare la loro catarsi. Col passare del tempo, Freud maturò nuove convinzioni. In un piccolo saggio intitolato Costruzioni nell’analisi, piuttosto che parlare di ricostruzione della vera storia dell’infanzia del paziente, egli considerava l’analisi come un lavoro di costruzione del passato. Non bisognava più preoccuparsi di portare alla luce i supposti accadimenti reali, quanto piuttosto di aiutare il paziente a costruire la verità della sua storia attraverso la creazione di nuovi e consapevoli nessi fra i frammenti del suo passato  La verità era allora costruita dall’analisi e nasceva dal gioco delle interpretazioni che accadeva nel dialogo fra l’analista e l’analizzato, e in quanto tale era espressione di una posizione debole di pensiero.
 Anche il modello teorico post-reichiano della SIAR si colloca  nel solco della tradizione del pensiero debole. Il setting analitico è considerato come un sistema complesso, come una forma vivente che nasce dall’incontro fra i tratti caratteriali dell’analista e i tratti caratteriali dell’analizzato. Un analista non è uno specchio neutro ma è implicato profondamente nella relazione. Sarà proprio la sua capacità di entrare in contatto a consentire il sorgere di quell’alleanza terapeutica fondamentale perché si dia la possibilità di uno sviluppo coevolutivo. L’interazione fra i diversi transfert e controtransfert consentendo una maggiore vitalità del paziente, determinerà importanti mutamenti nella sua struttura di carattere. In altre parole, l’interazione con l’analista consente al paziente una più ampia capacità di oscillazione e di sperimentare nuove e diverse possibilità di espressione di sé e di relazionarsi diversamente al mondo. Anche per la SIAR, dunque, la verità che accade nel setting non è una verità svelata ma una verità costruita, la creazione autopoietica del paziente.


[1] W. Reich, Biopatia del cancro, Sugarco.
[2] M. Fini, Nietzsche – L’apolide dell’esistenza, Marsilio, pp. 20/1
[3] I. Ollendorff, Wilhelm Reich. Biografia da vicino, La Salamandra
[4] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, p. 33
[5] W. Reich, Bambini del futuro, Sugarco.
[6] I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza, Einaudi
[7] H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti

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