Il disturbo di panico nella relazione di cura. Dalla diagnosi alla psicoterapia.
Dr. Giuseppe Ciardiello[1]
Si è soliti leggere i disturbi ansiosi a partire
delle manifestazioni sintomatiche ma, coloro che soffrono di questi disturbi,
sanno meglio degli operatori che il panico, l’ansia, il disturbo fobico non possono
essere ricondotti alle sole manifestazioni sintomatiche.
Come il congelamento
in risposta ad una minaccia travolgente (Traumi
e shok emotivi, Levine P.), corrisponde ad uno stato mentale specifico,
anche le altre reazioni espressivo comportamentali sono attivate da dinamiche
particolari che, ad un’accurata lettura diagnostica, si rivelano specifiche e soggettive.
Nel 2003 l’APA (Associazione Americana degli
Psicologi) definì la diagnosi psicologica come consistente nella valutazione dei comportamenti e dei processi
mentali e affettivi anormali, che risultano disadattivi e/o fonte di sofferenza
attraverso la loro classificazione in un sistema diagnostico riconosciuto e l’individuazione dei meccanismi e dei
fattori psicologici che li hanno originati e che li mantengono. Purtroppo
ad oggi, pur riconoscendo che il panico ha una determinazione multifattoriale, biologica,
genetica, cognitiva e dinamica, l’approccio d’elezione rimane quello chimico/medico
che riconosce, nell’eliminazione dei sintomi, l’unico scopo perseguibile.
Questa risposta specialistica è possibile che risponda ad una domanda; ma può anche darsi che la provochi.
Un disturbo così subdolo, perché improvviso e ingiustificato,
così anonimo, perché di difficile individuazione diagnostica, così
inspiegabile, perché non corrisponde a traumi evidenti e storicamente
determinati, si presta facilmente alle profferte e alle speranze di risoluzione
miracolosa.
Come psicologi, l’adesione a progetti che si basano
unicamente su diagnosi di sede o descrittiva, rendono difficile il
riconoscimento di prassi che attengono all’effettivo progetto di cura; da un
punto di vista psicoterapeutico è necessaria la formulazione di un progetto che,
guardando alla persona nell’intero arco vitale e alle fasi della sua evoluzione,
e a partire dai momenti di crisi, sappia ipotizzare una costruzione
fenomenologica dei processi eziologici.
Un mito molto suggestivo, riportato da Igino,
uno scrittore romano del II secolo d. C., ci parla di una dea molto singolare:
Cura. Secondo il mito, mentre Cura stava attraversando un fiume, scorse del
fango cretoso; ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Era intenta ad
osservare che cosa aveva fatto, quando intervenne Giove. Cura lo pregò di dare
lo spirito alla forma: Giove acconsentì volentieri e la forma divenne un uomo.
Cura allora pretese di imporre il proprio nome alla forma umana, ma Giove non
acconsentì e volle che fosse imposto il proprio. I due disputavano sul nome,
quando intervenne anche la Terra, reclamando che fosse imposto il proprio nome,
perché lei aveva dato alla forma una parte di se stessa. I contendenti elessero
Saturno a giudice, che emise la seguente salomonica sentenza: “Tu, Giove, hai
dato lo spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra hai
dato il corpo, e riceverai il corpo. Ma fu Cura che per prima diede forma a
questo essere, e per questo fin che vive essa lo possederà”. (Sandro Spinsanti,
presentazione al volume di Catello Parmentola, 2003 “Prendersi cura; il
soggetto psicologico e il ‘senso dell’Altro’ tra clinica e sentimento”; Giuffré
ed.) Vedi: Il
disturbo da attacchi di panico
Prendersi
cura è un processo che guarda all’intera persona come soggetto, e non
oggetto, della cura stessa. Il portatore di disturbo panico va salvaguardato
nella sua complessità e nella sua variabilità di espressioni che si rivelano essere
eventi sia relazionali sia corporei.
È in funzione di queste due dimensioni, e in relazione ad esse, che vanno
individuate le strategie di comprensione e cura.
Il presente seminario prende le mosse da queste
considerazioni per arrivare a formulare un’ipotesi di lettura delle dimensioni
che prendono la forma di comportamenti emessi nel disturbo panico. Una loro
corretta lettura può condurre all’individuazione di dimensioni compensative e
alle relative strategie che, riproposte e agite nello spazio terapeutico,
possono contribuire alla risoluzione del disturbo stesso.
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