domenica 23 febbraio 2014

Il corpo nell'addiction



Una lettura corporea del disturbo da dipendenza affettiva
Di Giuseppe Ciardiello

Nello scrivere questo breve articolo non posso fare a meno di brevi premesse che rendano più facilmente comprensibile il mio punto di vista e quanto andrò dicendo.
Tali premesse sono tanto più necessarie quanto più mi rendo conto di un taglio particolare, e tuttora imperante, nella lettura delle cose psicologiche, che porta ad una settorializzazione malgrado gli attuali notevoli cambiamenti che sollecitano una collaborazione tra i diversi punti di vista.
La realtà psicologica è comunemente intesa come il frutto del funzionamento del cervello e quindi è spesso presentata come un epifenomeno. Ora, dato che il modo di considerare le cose psicologiche determina anche il tipo di approccio terapeutico, e quindi il tipo d’intervento che s’intende adottare nel contesto di un disturbo, ed essendo il cervello un continuo processo chimico, diventa facile pensare alla pillola per qualsiasi evento psicologico si voglia modificare.
Ebbene, io non credo che quella che definiamo “la mente” sia il prodotto del singolo e isolato funzionamento cerebrale tant’è che non è possibile pensare ai processi e funzioni cerebrali senza le connessioni neuronali che trasportano i segnali dalla periferia del corpo; inoltre credo che il cervello, senza connessioni periferiche, non avendo informazioni da processare, non funzionerebbe perciò possiamo dire che è il corpo a contenere il cervello e insieme, cioè tutto il corpo, compongono l’essere che siamo nella sua capacità di leggere il reale e di interagire. L’essere senziente che avvertiamo accade in ragione di tutto l’organismo.
Così sono convinto che non esiste il cosiddetto “controllo dell’Io” come se ci fosse una parte di noi che guarda all’altra che controlla; se così fosse non capirei dove finisce il “me”. Io controllo nel senso che sono dentro gli occhi. E questi non sono i miei occhi ma Io sono questi occhi mentre realizzo il controllo nel modo più efficace possibile per me, così come realizzo la coordinazione di tutto l’organismo che sono. Il senso di Sé credo che nasca dal sentimento che accompagna lo svolgimento delle funzioni stesse e che la sua consapevolezza sia molto più antica di quanto non vogliamo ammettere.
Tutto questo vuol dire che i disturbi, e quello che definiamo disfunzionale nell'economia psicologica di una persona, si realizzano contemporaneamente anche su un piano corporeo. Perciò, quando nel corso dell’articolo si parlerà dell’Io e delle sue funzioni, il riferimento sarà all'insieme dell’organismo e alla complessità delle sue funzioni, sia psichiche sia fisiche, e le une avranno sempre un legame di rimando nelle altre, nel senso che il fisico è nello psichico e viceversa. È questo che mi persuade del fatto che ogni tentativo teorico speso nella definizione e analisi di eventuali disturbi debba tenere conto contemporaneamente dei due livelli sia corporei che mentali e lo sforzo terapeutico debba a sua volta tenere conto di ambedue le dimensioni. 
Questo deve valere anche per la “dipendenza affettiva”.

Spesso il DAP (Disturbo da Attacchi di Panico) non è spiegato ma associato alla sua descrizione e definibile con la sindrome manifesta. L’aspetto più evidente è un'eccessiva dipendenza affettiva che si manifesta attraverso il timore o il desiderio sconsiderato di una relazione a tutti i costi.
In realtà pur esistendo similitudini in queste due evenienze, dap e dipendenza affettiva, come del resto in tante altre manifestazioni, esse vanno annotate ma anche considerate insieme a tante altre dimensioni che compongono il quadro sindromico per un corretto intervento anche medico. Ai diversi eventi della vita alcune persone reagiscono con il panico, altre con lo sconforto, l’accoramento e a volte anche con la conversione.
In casi così simili la distinzione andrebbe cercata nella genesi dei singoli disturbi, quindi nella loro spiegazione piuttosto che nella loro descrizione, supponendo sviluppi che rendano conto più puntualmente di alcuni aspetti.
Proviamo ad ipotizzare comportamenti risalenti ai primi anni dalla nascita.
Ciò che ci porta ad accomunare erroneamente il disturbo di dipendenza affettiva al disturbo di panico, dipende dal fatto che ambedue i disturbi hanno un qualcosa a che vedere con la relazione. Infatti ambedue i casi di disturbo si manifestano in ambito relazionale anche quando, in apparenza, non esistono elementi evidenti cui è possibile ricondurre lo scatenamento stesso.
Ciò che invece differisce sono le diverse manifestazioni comportamentali di ansia, nel caso della dipendenza, e disintegrazione nel caso del panico.
In alcuni casi la destabilizzazione espressa nel panico è interpretata come un’espressione esasperata dell’incapacità di fare a meno di una persona così che il panicato  è etichettato come sofferente di addiction.
Ho ipotizzato una genesi particolare del panico: http://www.lidap.it/ciardiello.html  -  http://www.lidap.it/ciardiello2.html).
In quegli articoli ipotizzo che il vissuto di panico possa essere ricondotto ad una realtà infantile in cui l’aggressività prodotta dalla frustrazione materna sia rivolta contro il vissuto di Io. Nell’addiction invece ho l’impressione che la dinamica infantile si forma intorno alla difficoltà del soggetto di arrivare a sentire quell’ Io intero che può fare a meno del supporto esterno di relazione che funge da “collante”.
In pratica, mentre nel panico l’aggressività derivante dalla disattenzione o dalla fuga o dalla distrazione materna (o della figura primaria di relazione) si rivolge contro l’Io sottraendogli il collante (la capacità di tenersi insieme), che normalmente è il dono che il bambino fa alle figure importanti, nel caso dell’addiction è possibile ipotizzare che quel bambino non è stato in grado di produrre il collante o non è stato messo in grado di produrlo dalle figure di cura; perciò sarà capace di integrazione fintanto che esiste il supporto di una relazione garante di una continuità di quel sentimento di Io. Di conseguenza la funzione collante delle funzioni dell’Io saranno svolte dalle figure significative di volta in volte diverse nell’arco dell’intera esistenza. È come dire che la persona affetta da questo disturbo continua a proiettare nelle/sulle persone che trova significative della sua vita, la capacità aggregante della sua personalità. Capacità che avrebbe dovuto imparare a fare propria in qualità di dono per la figura primaria che, in tal modo, ne avrebbe stimolato l’autonomia.
La maggioranza di noi ha avuto questo tipo di relazione; ognuno di noi ha avuto un momento della propria vita in cui era importante proiettare sugli altri una capacità aggregante delegando ad altri significativi, il papà, la mamma o altri che si prendevano cura di noi, la responsabilità di ciò che si era e da queste persone ci arrivava la conferma, la rassicurazione, il supporto e l’appoggio per ciò che eravamo e che dovevamo essere.
Nella relazione di fiducia che ci costruiva e ci confermava ogni giorno, si specchiava costantemente l’immagine e l’idea di ciò che eravamo e di ciò che loro, i nostri care giver, desideravano che fossimo e che negli anni ognuno di noi ha imparato a fare propria. Così io oggi probabilmente sono anche ciò che vedevo rispecchiato negli occhi di mia madre quando mi guardava quindi sono, nel contempo, ciò che voglio, ciò che ho voluto ma anche ciò che lei ha voluto che io diventassi.
Il momento successivo della crescita è stato quello che ha visto il bambino acquisire tanta fiducia in sé, anche grazie a questi rimandi familiari, da cominciare a sentire come un requisito proprio e personale la costituzione di un essere unico. Ha imparato a farlo anche imitando e appropriandosi del comportamento dei genitori che dall’inizio della vita, controllandone le azioni, ne hanno perfezionato i comportamenti. È un po’ come quando impariamo il corretto uso del cucchiaio che da piccoli si realizza con un graduale controllo interiore di volta in volta confermato dai genitori.
Ora, mentre nella costruzione del disturbo del panico si può ipotizzare che l’affetto della figura di riferimento è venuto meno dopo che il bambino ha raggiunto la costruzione dell’io, realizzando la definitiva acquisizione della capacità di fornire le singole funzioni dell’Io del materiale aggregante, nel caso  dell’addiction si può pensare che la figura di sostegno non abbia operato tradimenti nei confronti del bambino,  ma molto più semplicemente, non ha stimolato in lui l’acquisizione della capacità aggregante inibendone il sentimento dell’autonomia.
I motivi possono essere stati diversi.
La madre (o chi per lei) potrebbe aver avuto bisogno della dipendenza del bambino perché questa la faceva sentire utile, importante e poteva contribuire a dare senso alla sua vita.
In tali contesti non dobbiamo cercare colpe perché, malgrado l’apparenza, tali atteggiamenti sono inconsapevoli e dettati da bisogni che vengono da lontano. Il bisogno di dare senso a un’esistenza, la propria ma anche a quella dei figli, non è solo delle madri e dei padri ma fa parte dell’essere persone e un figlio, come un amora, dà un tale senso all’esistenza da riempire tutta la testa. E non siamo colpevoli se ci lasciamo prendere a tal punto da quest’amore da non riuscire più a distinguere la funzione corretta del nostro ruolo.
D’altro canto potrebbero essere accaduti tanti altri eventi capaci di prendere l’attenzione, situazioni incresciose e di poco alimento (affettivo emozionale ma anche materiale, di cibo vero) possono aver determinato carenze di sostegno fisico ed emotivo in relazione ai vissuti integrativi delle funzioni dell’Io. Quando questi eventi si presentano nel periodo di maggiore sensibilità evolutiva e distolgono le attenzioni genitoriali si rischia che il bisogno di supporto aggregante si incista nella personalità di un individuo e si prefiguri come il frattale maggiormente ridondante nella sua vita.
Quali le conseguenze?
A parte gli aspetti psicologici come l'estrema dipendenza dalle figure importanti e il precipitare di crisi depressive reattive, mi sembra interessante il prefigurare la possibilità di far risalire questo disturbo di mancanza di stabilità (emotiva?) alla mancanza di equilibrio come dimensione psicofisica.
Questa lettura del disturbo ci consentirebbe di pensare ad un intervento terapeutico che preveda la disamina di esperienze psicologiche, associate ad esercitazioni anche fisiche, di appoggio, equilibrio, e focalizzazione dell'attenzione.
Queste esperienze, mirate per ogni singola persona e condotte con competenza tecnica, potrebbero rappresentare valide esperienze per dare un senso all'introiezione della capacità di farcela da soli.

Abstract
Come tutti i tipi di disturbi psicologici, anche nel caso dell’addiction è possibile riscontrare nel corpo difficoltà riconducibili alla relazione e la cui regolarizzazione, effettuata anche per mezzo di esercizi fisici, può influire positivamente nel recupero del disturbo specifico. 



Ulteriori suggestioni inerenti l’articolo possono essere sollecitate dalla lettura dei seguenti libri:
Ramachandran V. S., Blakeslee S., “La donna che morì dal ridere”, Saggi Mondatori, 1999.
Lowen Alexander, “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli Ed. XVIII, 1998
Glen O. Gabbard, “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Ed., 1995.

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