venerdì 28 aprile 2017

Quando il corpo si muove produce echi!

Diario di lettura:  Corpo e mente in psicomotricità", di Eraldo Berti e Fabio Comunello, edito da Erickson nel 2011.


Completamente assordati dalle parole e dalle grida di rivendicazione, spesso ci si lascia distrarre e si perdono i riferimenti e i contatti anche con coloro che ci stanno vicini.
Le nuove terapie cognitive, come ieri la psicoanalisi, con le metafore e le sue affascinanti interpretazioni, ci distraggono ancora oggi e non ci si accorge dei cugini che condividono tradizioni e geni interpretativi.


Ho scoperto all'improvviso, dopo anni di avvisaglie e letture evidentemente disattente, quanto la psicomotricità cammini nella stessa direzione delle psicoterapie corporee.
Forse mi sono lasciato distrarre dall'obiettivo dichiarato della psicomotricità, che sembra orientato all'evoluzione infantile, e che mi ha distratto dall'aspetto relazionale che oggi si comincia a formalizzare con la Psicomotricità Relazionale. O forse mi sono potuto accorgere dell'aspetto relazionale della psicomotricità solo quando anch'io non ho più potuto tollerare l'idea di cercare la mente nel corpo piuttosto che nelle relazioni.
Fatto sta che mi è nato il desiderio di riportare, in quest'angolo di internet, alcuni pensieri trovati in un libro che sembra togliermi le parole di bocca quando racconto la materia vegetoterapeutica agli allievi terapeuti. Voglio farne una piccola raccolte di note.


Il libro in questione è: "Corpo e mente in psicomotricità", di Eraldo Berti e Fabio Comunello, edito da Erickson nel 2011.
Ne raccomando la lettura a tutti i colleghi vegetoterapeuti mentre, per sedurli maggiormente, presenterò brevemente i passaggi che mi hanno maggiormente intrigato e cercherò di commentarne alcuni.
Magari non mi accadrà di saperli commentare come meriterebbero nell'immediato perché tutto il libro è intenso e anche i più piccoli paragrafi sono impregnati di riferimenti importanti e significativi. Ma forse riuscirò a farlo nel tempo, così le brevi note che riporterò potranno rappresentare una falsariga sulla quale scrivere una specie di diario a cui ritornare anche nel futuro.
Segnerò le pagine delle diverse annotazioni così da poterle utilizzare come elementi di approfondimento e per poter risalire al pensiero originale. Questo perché penso che, quando si è alla presenza di teorie e punti di vista importanti, e specie quando si dicono le stesse cose utilizzando a volte anche le stesse parole, a volte il senso è diverso e si rischia di confondersi e non riuscire più a distinguersi e camminare vicini col rischio di sovrapporsi impropriamente.
Per esempio in psicoterapia si usa sempre più spesso il termine energia; però non sempre terapeuti di diversa estrazione intendono riferirsi agli stessi strumenti o alla stessa sostanza o agli stessi effetti e, ciononostante, poche volte ci si preoccupa di definirne il senso.




Un'ultima nota è relativa al motivo di fondo del mio interesse nei confronti della psicomotricità. Ciò che in vegetoterapia mi sembra assimilabile al lavoro dei colleghi psicomotricisti è l'attenzione alle dimensioni psicologiche vissute nei processi corporei e riconducibili alle sensazioni/emozioni.
Ho l'impressione che il modo in cui queste dimensioni sono utilizzate non siano circoscrivibili o riconducibili ai soli bambini, né che siano ascrivibili necessariamente alla loro abilità. Le dimensioni psicologiche (in vegetoterapia è lo stato psicologico evolutivo, vissuto da una persona, combinato al livello muscolare investito per quella relazione) sono riconducibili ai vissuti relazionali che accompagnano ogni relazione, in tutti i momenti della vita, e che solo arbitrariamente sono definibili come oggettive. Al contrario, anche quando comuni a più persone, sono sempre indagabili soggettivamente perché soggettivamente vissute.
Mentre in psicomotricità si parla di dimensioni primarie, come il vuoto, il pieno, il dentro, il fuori ecc, in vegetoterapia si può parlare di dimensioni più adulte (evolute?) come quella dell'equilibrio, della stabilità, dell'integrazione, della fiducia, della sicurezza ecc. quelle dimensioni la cui dinamica terapeutica ho cercato di descrivere dettagliatamente nella genesi del panico e che possono essere individuate per ogni disturbo o conflitto o disagio.
Anche se non sono esplicitate le diverse dimensioni in atto, è sulla base della loro individuazione, anche se implicita,  che vengono pianificati gli acting di vegetoterapia; è tenendo conto della loro presenza che ne viene modulata l'applicazione e il più delle volte l'interpretazione consiste semplicemente nella loro esplicitazione.
L'implicito di queste operazioni attiene al modo di essere soggetto conoscente che solo attraverso i propri vissuti conosce quelli degli altri e, viceversa, solo ammettendone negli altri può ipotizzare modalità piene di conoscenza!

"Alcune annotazioni strategiche e, forse, operative. In ciascuno di noi, per piccoli o incapaci che siamo, vi è un'attività di conoscenza, ovvero: ciascuno ha una sua conoscenza già attiva. Se noi la ignoriamo, sia nel ruolo di chi educa (insegnante, educatrice/tore, ecc.) che di chi è educato (studente, ecc.), rischiamo, pretendendo che vi sia un solo modo di conoscere (quello di chi educa), di impedire l'accesso alla conoscenza. Per evitare questo, occorre proporre e accogliere una pluralità di mediatori. La difficoltà maggiore è nell'accogliere le proposte di mediatori che vengono <<dall'altro>>, anche da chi è molto piccolo o vive con delle difficoltà e esprime le sue proposte agendole. ... Chi educa può, educando, agire la riflessione. E con questo trasmettere per induzione e non per riproduzione. "
(dalla prefazione di Andrea Canevaro, pag. 21)

Con l'avvento delle scuole di specializzazione in psicoterapia è tornato d'attualità il 'come' dell'insegnamento dato che tutte le scuole insegnano la stessa materia (la psicoterapia), ed ognuna lo fa a proprio modo, utilizzando strategie e strumenti non verificabili né verificati (C. Neri e R. M. Paniccia, "Analisi della domanda", Il Mulino, 2003). Inoltre non esiste un modo d'insegnare né i diversi modi di insegnamento sono vagliati alla luce dell'efficacia. Uno spazio logistico, mentale e temporale, da dedicare ai modi dell'insegnamento e dell'utilizzo degli strumenti, non ci starebbe male negli spazi della didattica specialistica, se non già previsto.

Per esempio, nello specifico della vegetoterapia, potrebbe essere interessante l'istituzione di un dibattito sulle modalità d'insegnamento della stessa vegetoterapia. Questa si avvale del massaggio, del dialogo tonico, del linguaggio non verbale, di un setting specifico (lettino), della somministrazione degli acting, di modalità interpretative specifiche (che possono rifarsi alla psicoanalisi e/o alla psicofisiologia e/o ad altri approcci) e di ulteriori attività riconducibili a processi relazionali che, una volta individuati e formalizzati, potrebbero essere fatti oggetto di indagine e di strumento protocollare trasmissibile. 

Dal capitolo 1: Fra soggettività e oggettività.

"L'attaccamento alle procedure standardizzate produce certezza nel ricercatore o nel terapista, e quindi sicurezza psicologica (sa cosa fare) e riconoscimento intersoggettivo (essere parte di una comunità), ma di per sé non produce nuova conoscenza.
I protocolli rischiano di trasformarsi da strumento in scopo, così che l'oggetto reale, per cui sono stati costruiti, tende a sparire sullo sfondo, oppure a essere costretto sul letto di Procuste delle definizioni protocollari." (pag. 39)

"La critica di Prodi ("La scienza, il potere, la critica" G. Prodi, 1974, Il Mulino, Bologna) al mito dei protocolli fa il paio con la critica che Bruner rivolge alla psicologia quando parla di <<metodolatria>> e di <<piccoli studi insignificanti dal punto di vista scientifico, ciascuno dei quali non è che la risposta ad altri lavoretti altrettanto insignificanti>> (J. Bruner, 1990, trad. it. 1992, p. 15, "La ricerca del significato - per una psicologia culturale", Boringhieri), trascurando così i grandi temi della psicologia quali la natura della mente, la costruzione dei significati, l'influenza della cultura sulla formazione della mente." (pagg. 39-40)

"L'ossessione protocollare fa dimenticare il ruolo centrale dell'ipotesi nel processo conoscitivo. L'induzione, cioè lo stabilire una regola generale a partire da una massa di rilevazioni osservative concordanti, considerata il meccanismo principe del metodo scientifico, è già stata messa in crisi da Popper con il famoso esempio dei cigni bianchi e dei cigni neri (K. Popper, "La logica della scoperta scientifica", Einaudi, 1970) (... il fatto che molti cigni siano bianchi non vuol dire che lo siano tutti..)
... Il primo a porre l'ipotesi, o abduzione, al centro del processo conoscitivo è stato Peirce, ritenuto il padre della semiotica: egli la considera anche il meccanismo base per la costruzione e interpretazione dei segni, <<L'abduzione parte dai fatti senza , all'inizio, avere di mira una particolare teoria, benché motivata dall'impressione che ci vuole una teoria per spiegare i fatti sorprendenti. [...] L'abduzione cerca una teoria. L'induzione cerca fatti. Nell'abduzione la considerazione dei fatti suggerisce l'ipotesi>>. (pag. 40)

L'oggetto della ricerca scientifica esula un po' dall'argomento che mi interessa sviluppare e che mi spinge in questo lavoro, ma gli è molto vicino.
Sempre più spesso, e specialmente in questi ultimi tempi, in cui le rivalutazioni dei processi energetici spingono chiunque a dire la propria opinione, e la crescita esponenziale degli strumenti mediatici ne permettono la generalizzazione, si parla di tutto e di più senza fare riferimento ai criteri usati come guida. Il rischio è che le ipotesi comincino ad essere trattate come fatti e la realtà a confondersi con la fantasia producendo una commistione pericolosa. L'esito ulteriore nelle persone che assistono a queste sovrapposizioni è l'ulteriore alimentazione dello scetticismo. Specie per gli psicoterapeuti corporei è di fondamentale importanza  dimostrare l'esistenza di legami tra processi cognitivi e corporei. Per questo è necessario privilegiare la modalità di ricerca deduttiva, che cerca di spiegare, a ritroso, processi coerenti, piuttosto che quella induttiva che spiega tutto (miracolosamente).
Più specificamente, i nostri autori si accalorano nella necessità di spiegare quanto sia necessario attenersi sia ai fatti sia ai fattori soggettivi cercando di venire fuori dalla necessità di generalizzare partendo da supposte ipotesi che non si attengono ai fatti:

"La generalizzazione è un'operazione dell'osservatore, non una qualità delle cose: il generale è cercato e posto, non è dato. Non esiste la persona Down, bensì tante persone che condividono la sindrome Down, ognuna con caratteristiche individuali e la propria storia che la rende unica. La persona Down tipo è un'astrazione, per ottenere la quale si sono eliminati i tratti individuali e conservati solo quelli comuni; anche questi ultimi sono descrizioni effettuate dall'osservatore che li ha scelti come pertinenti e definiti nel proprio linguaggio. Usando un'espressione ormai consunta ma non per questo meno valida: sono una mappa non il territorio. E rilevare nel territorio solo gli elementi descritti dalla mappa, o peggio scambiare la mappa per il territorio è un errore in cui è molto facile incorrere anche per la tendenza specifica del linguaggio a <<cosificare>> ciò che descrive."  (pag. 42)

Specialmente con il materiale umano è necessario prestare attenzione ai fatti soggettivi che sono culturalmente modellati dai gruppi di appartenenza, dagli affetti e dall'aria che si respira. I moduli protocollari, e tutte le teorie che rimandano a forme oggettive di spiegazione del modo di essere umani, generalmente si ispirano al metodo induttivo e rischiano di presentarsi come lenti deformanti:


"Un dubbio simile è stato avanzato all'interno del tema specifico dell'autismo, confrontando quello che è definito <<autismo di laboratorio>> con <<l'autismo ecologico>>, cioè autistici reali, e non selezionati, nel loro ambiente reale. Il dubbio riguarda specificamente la Teoria della Mente (TOM) e le sue articolazioni [...] le cui conclusioni sono ottenute tutte tramite specifici esperimenti in laboratorio. Teoria che ha alla base la concezione della mente come insieme di moduli specifici, la cui funzione è quella di processare simboli astratti, cioè di utilizzare la logica proposizionale. Il risultato di questa teoria e dei suoi elementi sulla concezione generale dell'autismo è che questi <<da strumenti che aiutano a capire certe caratteristiche e certi limiti di fondo dell'esperienza autistica, vengono scambiati per strumenti di lettura dell'autismo, nel suo complesso>> (F. Barale e S. Uccelli, "La debolezza piena. Il disturbo autistico dall'infanzia all'età adulta" in F. Ballerini et al. (a cura di) Autismo. L'umanità nascosta, Einaudi, 2006, pag. 122)". (pag. 49)


Allora anche le dimensioni psicologiche, i caratteri, gli standard prestazionali di qualunque tipo e le diverse categorie diagnostiche sono solo riferimenti di massima e bastoni su cui appoggiarsi per cercare di meglio comprendere la realtà psicologica che ci appartiene. Ma ogni volta che se ne fa un uso generalizzante si commette un errore di massificazione. Così, anche quando si hanno idee chiare sullo sviluppo di un determinato disturbo, il fatto di averlo correttamente diagnosticato da un punto di vista psicoterapeutico non ne autorizza l'uso e la lettura categoriale ma va sempre indagato come fosse la prima volta.

Dal capitolo 2: Corpo e mente.


In merito alle localizzazioni cerebrali delle funzioni organismiche, gli autori sono estremamente critici:


"Ciò che non ci convince è che l'individuazione di aree, circuiti cerebrali e neuroni responsabili di comportamenti e caratteristiche umane sia una risposta esaustiva, tesi influenzata dal positivismo per cui è scientifico solo ciò di cui si ha evidenza materiale e risponde al principio di causa-effetto. [...] Il cervello non è semplicemente il padrone del vapore, né è solo una macchina funzionale o un elaboratore di informazioni; è anche una macchina sociale, evolutasi insieme al corpo di cui fa parte all'interno di una popolazione di corpi simili a lui, per costruire e comprendere eventi e atti sociali, e influenzato da questi fino nelle sue connessioni." Pag. 60)


La tentazione di parlare dell'area di Broca, dell'ipotalamo, del talamo, delle connessure, della sostanza reticolare ecc. è tantissima tanto che psichiatri, psicologi, terapeuti e psicoterapeuti, addetti alla formazione, sembra che ormai non sappiano più parlare della persona umana senza far riferimento a qualche sito cerebrale specifico dove si realizza la tale o tal'altra funzione (sociale). Ci si dimentica facilmente delle realtà relazionali e sembra che, parlando dell'uomo facendo riferimento alle capacità cerebrali, renda il discorso più affidabile.
Anche quando si riconosce l'influenza della cultura, e si ammette il ruolo materno e familiare nel formarsi del carattere delle persone, o quando si valorizzi il ruolo e la funzione del corpo descrivendo le esperienze che vi si memorizzano, la tendenza sia sempre quella di riferirsi a organi cerebrali visti come oggetti fissi e consolidati. Difficilmente si fa riferimento alle modalità soggettive che quei  siti realizzano, soggettività derivante dagli eventi esperienziali che, agenti su una struttura plastica, la modificano modificando a sua volta le sue modalità di processazione e realizzazione degli eventi.
In alcune affermazioni verrebbe da dire che questi autori siano più corporei degli stessi psicoterapeuti corporei:

"... il corpo umano è biologicamente un corpo relazionale e culturale. [...] Non a caso è stato Ajuraguerra a creare l'espressione <<dialogo tonico>> per indicare, in senso reale e non metaforico, il primitivo dialogo fra madre e bambino, costituito dai precoci scambi e adattamenti, spesso microadattamenti tonico posturali. Il tono muscolare, la più arcaica e automatica delle nostre risposte agli eventi del mondo (che condividiamo con gli altri mammiferi) veicola significati emotivi e affettivi fondamentali e complessi. I significati che il bambino apprende ad attribuire (non per via rappresentazionale, cioè simbolica) alle variazioni toniche e al tono prevalente della madre, si incideranno nei suoi muscoli e nelle sue connessioni neurali, influenzando le sue future interazioni con le persone che incontrerà, anche una volta adulto, e le valutazioni che di esse darà: il dialogo



tonico continua per tutta la vita." (Pag. 63)
"I mille modi di compiere un'azione sono variazioni, modulazioni e sfumature di due parametri: il tono muscolare e il tempo. Parametri che ... sono due degli strumenti principali sia dell'intervento che dell'osservazione psicomotoria. Anzi è nella percezione e nell'utilizzo di tutte le variazioni e sfumature del tono muscolare, quale primaria manifestazione dell'espressività e della comunicatività, che risiede una delle principali competenze specifiche della psicomotricità." Pag. 64)


Nei recessi dei dialoghi ad impronta cognitiva si smarrisce il senso del dialogo tonico e le stesse terapie corporee stentano a recuperare i riferimenti che le hanno fondate. Hanno difficoltà ad emanciparsi da un sapere che sempre di più afferma se stesso rivendicando processi distanti dalle sensazioni.


"Ciononostante, il corpo, i suoi movimenti, il suo tono muscolare, le sue azioni sono comunemente ancora considerate funzioni inferiori rispetto alla memoria, alla coscienza, al linguaggio: servi più o meno docili e abili delle funzioni mentali superiori. La sequenza classica è: sensazione, percezione, decisione, azione. [...] La psicomotricità invece ha da sempre scommesso che, proprio tramite le attività sensomotorie e motorie, sia possibile agire sul complesso delle altre funzioni." (Pag. 66) 


Definizioni queste davanti alle quali si resta perplessi e oggi ci si può chiedere come mai le psicoterapie corporee abbiano sempre fatto tanto la corte alla psicoanalisi lasciando da parte la psicomotricità la, invece a detta degli autori, fanno riferimento agli aspetti cognitivi fondamentalmente incarnati. Di quest'ultima affermazione i corporei hanno necessità della pratica piuttosto che della teoria. Non basta affermare di credere nella corporeità. Bisogna dimostrare di potere e volere individuare gli eventi corporei che accompagnano i processi mentali e non che si cerca di essere corporei solo perché si negano i processi mentali. I processi, mentali e corporei, si dispiegano in una mutualità di reciproco rimando dal concepimento alla morte:


"Lakoff e Johnson, invece, propongono da punti di vista complementari (linguistico e filosofico) la teoria che le nostre categorie concettuali, la struttura logica del pensiero e la semantica sono motivate dall'esperienza corporea: non sono il risultato di una corrispondenza fra l'attività di una mente disincarnata e gli oggetti e stati del mondo, bensì dell'interazione continua fra una mente incorporata e l'ambiente. Noi categorizziamo, pensiamo e immaginiamo in base a schemi generali fondati sulle nostre attività sensomotorie. Il linguaggio stesso, nella sua struttura e nei suoi significati, è una proiezione metaforica dal dominio dell'esperienza fisica al dominio simbolico o astratto (l'opera di Jhonson si intitola infatti The Bosy in the Mind)." (Pag. 71) 
Allo stesso modo non si può lavorare con il corpo baipassando i processi mentali. Se i processi organismici sono processi che si sostengono mutualmente, allora un lavoro organismico di tipo psichico deve necessariamente cercare strumenti comprensivi dei due tipi di processi e, siccome i due tipi di processi comunicano perché sono reciproci, bisogna trovare gli strumenti per la decodifica.
La vegetoterapia è uno di questi strumenti e perciò con il suo impiego si opera realizzando tutti i processi psicoterapeutici, dall'analisi della domanda all'interpretazione, dall'individuazione dei meccanismi di difesa alla risoluzione dei conflitti. In pratica, sembra di capire, realizzando gli stessi obiettivi che si cerca di realizzare con l'impiego della psicomotricità.

Dal capitolo 3: L'intersoggettività.

"Quanto avviene nelle persone è strettamente connesso, e spesso dipendente, da ciò che avviene tra esse; infatti, l'essere umano, prima e più che a risolvere problemi, è costantemente impegnato ad attribuire e condividere significati, soprattutto relazionali. Ma l'intersoggettività si realizza primariamente e principalmente nell'azione condivisa, ovvero uno spazio comune che include azioni, intenzioni, scopi, valori, significati, affetti, ecc. Ciò implica anche considerare la relazione interpersonale come il luogo, il fine e lo strumento del proprio intervento terapeutico e preventivo." Pag. 75)
"La psicomotricità ha avuto il merito di proporre la centralità della relazione interpersonale tramite azioni motorie e sensomotorie, superando tre concezioni scientifiche e culturali. La prima, come si è visto, che l'apparato motorio avesse una funzione puramente esecutiva, senza  alcuna influenza sugli aspetti cognitivi, percettivi o emotivi; le connessioni neurali, comportamentali e simboliche erano concepite unicamente come connessioni unidirezionali dall'alto in basso.
La seconda si basava su una visione culturale più ampia e più antica che ha influenzato direttamente temi, concetti e metodologie della ricerca psicologica: l'idea riguardava la concezione dell'uomo quale individuo racchiuso nell'involucro della propria pelle, e della mente racchiusa nel cranio, in coabitazione con il cervello. Quindi, un sostanziale isolamento, parzialmente superato solo tramite sistemi e linguaggi simbolici di cui si sottolineava l'aspetto razionale e convenzionale. Di qui l'accento posto, a volte ossessivamente, sull'Io o sul Sé, per cui l'identità era un processo o un problema essenzialmente infrasoggettivo, in cui l'altro era chiamato in causa solo come pietra di paragone da cui differenziarsi. in tal modo si <<cosificava>> una realtà linguistica (<<io>>) in un'entità extralinguistica (l'Io), trascurando un dato ben sottolineato dai linguisti, e cioè che non si può né pensare né dire <<io>> senza un'implicazione diretta e coinvolgente di un <<tu>>. E che anche un <<esso>> o un <<lui>> (il famoso discorso in terza persona della ricerca scientifica ) può essere individuato e detto solo sulla base di un <<io-tu>> cioè di un <<noi>>.
[...]
La terza concezione era che le diverse funzioni mentali fossero nettamente distinte le une dalle altre, e fossero governate da aree cerebrali non solo differenti ma anche pressoché autonome: così le aree premotoria e motoria per i movimenti, l'ippocampo per la memoria a lungo termine, il sistema limbico e in particolare l'amigdala per le emozioni e i valori, e le aree associative con il compito di coordinare i segnali provenienti dalle diverse parti. Tutto questo ha generato dei <<confini concettuali rigidi tra pensiero, azione ed emozione quasi si trattasse di regioni della mente>> (J. Bruner, "La mente a più dimensioni", Laterza, 1988, pag. 131). Lo sviluppo, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, selle ricerche sulla relazione precoce madre-bambino prima e poi la scoperta dei neuroni specchio hanno modificato radicalmente tutto ciò e spinto a costruire <<dei "ponti concettuali" per rimettere in collegamento ciò che non si sarebbe mai dovuto separare>> (Id.) Pag. 75/76)

Quella che all'inizio degli anni Ottanta era ancora un'ipotesi, anche se altamente plausibile, e cioè che la relazione precoce sarebbe la vera radice dello sviluppo mentale, ormai è un fatto assodato: la soggettività nasce dall'intersoggettività, o meglio sono le due facce di una stessa medaglia. Questo vale nello sviluppo del Sé, nell'apprendimento linguistico, nella regolazione e manifestazione degli stati affettivi. L'intersoggettività compie un salto di qualità dopo quello che è stato definito <<il miracolo dei 9 mesi>>, quando il bambino comincia ad avere la consapevolezza di sé e degli altri quali agenti intenzionali. Il meccanismo tramite cui ciò avviene è quello dell'attenzione congiunta. <<Attenzione congiunta verso un oggetto significa adesso che il bambino non solo è consapevole dell'oggetto, ma è contemporaneamente consapevole dell'attenzione che l'altra persona rivolge all'oggetto [...]. A questa età la consapevolezza che il bambino ha dell'attenzione dell'adulto è operativa anche quando è lui stesso l'oggetto di tale attenzione>>. (M. Tomasello, "Le origini interpersonali del concetto di sé", in U. Neisser (a cura di), "La percezione del sé" Bollati Boringhieri, 1999, pp.198-209). (pag. 78)
[...] Ossia, le esperienze svolgono un ruolo importante non solo nel determinare quali informazioni arrivano alla mente ma influenzano anche il modo in cui la mente le elabora. <<Le relazioni interpersonali svolgono [...] un ruolo centrale nel determinare lo sviluppo delle strutture cerebrali nelle prime fasi della nostra vita [...]. Il potenziale genetico viene espresso all'interno di esperienze sociali che esercitano effetti diretti sulle modalità con cui le cellule vengono collegate fra di loro in questo modo le "connessioni umane" portano alla creazione di connessioni neurali>> (D. Siegel, "La mente relazionale", Raffaello Corina, 2001). (pag. 81)
 :
La prevedibilità va ben oltre la costruzione di rituali condivisi. proprio perché la mente è una macchina per fare ipotesi, lo psicomotricista ha la necessità di rendere prevedibili le proprie azioni e iniziative perché il significato siapiù chiaro e il bambino possa organizzare meglio la propria risposta (se l'iniziativa è partita dall'adulto) o possa comprendere meglio che quella dell'adulto è la risposta a una sua azione. La prevedibilità può essere data dall'annuncio verbale come da un assetto posturale, uno sguardo protratto o un accenno di azione. Se è vero che, grazie ai neuroni specchio, siamo in grado di comprendere l'azione dell'altro anche solo vedendone una parte o gli effetti, un'azione accennata pone le condizioni perché il bambino possa entrare in <<orgasmo interpretativo>>: ipotizzare cosa sta per fare l'adulto, attivare una connessione di causa-effetto, anticipare la propria risposta. (pag. 84)


Vi è un aspetto della psicoterapia che viene poco considerato nella pratica pur essendo enunciato nella teoria. O, per meglio dire, non si spiega come tenerne conto. E' quell'aspetto della relazione che dovrebbe considerare l'estrazione culturale del paziente, il contenuto della sua evoluzione e della modalità con cui è stato conseguito nel corso della sua evoluzione, la sua competenza relazionale, il grado di istruzione. In Vgt lo si attua tenendo conto del "dialogo tonico", della soggettività delle scansioni temporali e ritmiche e dell'utilizzo dei sottoacting, che sono gli acting di transizione, e che, spostando il paziente da un livello muscolare all'altro e da una fase evolutiva all'altra, si presentano con un combinazione di movimenti gradualmente differenziati dal livello precedente al successivo. Sono gli stessi acting che in vgt tengono maggiormente conto dei processi di separazione e approdo. Mi sembra che queste modalità, dell'individuazione e utilizzazione dei sottoacting, o acting di passaggio, possono essere ricondotti ai processi di calibrazione della relazione in psicomotricità:

"Come la madre con il figlio, lo psicomotricista seleziona il proprio repertorio comportamentale, anche se in modo diverso; infatti, quello materno sembra avere una base biologica se è vero ad esempio che il baby talking di una madre giapponese e di una americana hanno la stessa curva prosodica, anche se le due lingue sono molto diverse da questo punto di vista. Inoltre, la madre ha di fronte a sé un essere umano molto limitto dal punto di vista motorio e dipendente per la sopravvivenza, per cui l'aspetto comunicativo-relazionale e quello di accudimento sono intimamente intrecciati e, in certi momenti, indistinguibili.
Lo psicomotricista invece seleziona il proprio repertorio comportamentale finalizzandolo alla chiarezza e comprensibilità dei messaggi, sulla base di una formazione professionale e culturale, e secondo l'età, il tipo e la gravità della disabilità del bambino: più è piccolo, più il repertorio si avvicina a quello materno, ad esempio per quanto riguarda il contatto corporeo, ma sempre con le differenze accennate.
I due tipi di repertorio hanno però alcune caratteristiche simili. Innanzitutto vi è un aumento della ridondanza comunicativa ed espressiva. Lo stesso messaggio è veicolato da più canali e ripetutamente (parola, gesto, mimica, tempo). Vi è una modifica generale del proprio tempo di azione  ed enunciazione, caratterizzata soprattutto da un rallentamento e un aumento delle pause. Compare un'accresciuta enfatizzazione gestuale, mimica e prosodica. Come la madre, lo psicomotricista è attento a modulare il proprio tono muscolare su quello del bambino, riattualizzando il dialogo tonico primitivo. <<La modulazione tonica è la valenza comunicativa che il tono assume nella relazione; è una risposta affettivo-emozionale che implica la presenza e che percorre la gamma tensione/distensione come qualità>>. (Berti E., Comunello F., Nicolodi G., "Il labirinto e le tracce", Giuffré ed., 1988, pagg. 67-68)" (pag. 85)


Continuando la precedente nota, per cui la similitudine con la vgt consiste nel considerare la dotazione organica soggettiva, del terapeuta, accortamente calibrata sugli aspetti di personalità del soggetto terapeutico, si può giungere fino a considerare la possibilità di individuare nelle dimensioni corporee dei due componenti la coppia, il realizzarsi dei processi transferali e controtransferali.

"La particolare attenzione e consapevolezza del tono muscolare proprio e del bambino è una caratteristica specifica dello psicomotricista, il quale tiene sotto controllo la <<risonanza>> immediata che il tono dell'altro ha sul proprio <<vissuto tonico>> (espressione di Ajuraguerra) per evitare di dare una risposta automatica. Infatti il tono muscolare è il canale primario con cui ogni animale reagisce agli eventi esterni, segnale biologico di allarme o di sicurezza, di preparazione o di cessazione dell'azione. Su questa dotazione/funzione di base si innesta progressivamente il <<vissuto tonico>> (il modo in cui lo utilizza e interpreta) costruito dalla storia relazionale dell'individuato fino a iscriversi materialmente nei suoi assetti tonico-posturali abituali. <<Il tono può essere allora definito come il principio informatore della relazione del soggetto con il mondo, ciò che trasforma una posizione in una postura, determina l'organizzazione e la qualità del movimento e, tramite questo, informa delle connotazioni affettive di cui sono stati investiti il tempo e lo spazio>> (Berti, Comunello e Nicolodi, 1988, pp. 66-67). E ciò si trasforma subito in un giudizio, anche se spesso inconsapevole, sulla natura e lo stato dell'interazione e della relazione." (pag. 86)


Così finalmente i due processi transferali smettono di essere considerati solo mentali e acquistano senso nella dimensione corporea.

"Per realizzare ciò non è sufficiente sapersi <<occupare del corpo>>, come fa chiunque eserciti una professione che implica una qualche forma di interazione o contatto con un corpo altro, ma è necessario imparare a <<stare con il corpo>>, cioè a proporsi attraverso il proprio assetto tonico/posturale, a utilizzare lo spazio a disposizione, gestire il tempo, modulare la voce, usare gli oggetti in funzione dell'altro o di un gruppo. Non basta saper <<stare con il corpo>>, ma è necessario <<parlare al corpo>> e ancora <<parlare dal corpo>>..." pag. 86


Giuseppe Ciardiello

































lunedì 10 aprile 2017

Depressione e trauma negli/degli occhi

Ultime ricerche sulla depressione mostrano quanto e come la terapia metacognitiva possa essere utile per la risoluzione di questo disturbo. Gli autori di un importante articolo raccomandano agli operatori del settore di prestare attenzione al modo in cui si articola il pensiero, piuttosto che ai suoi contenuti,  perché ritengono che il portare l'attenzione ai processi che sottostanno ai pensieri, e che ne costituiscono la forma, sembra rappresentare la strategia vincente per arrivare a modificare la ricorsività e l'insistente presenza dei pensieri depressivi.


Queste ricerche sembrano confermare anche gli approcci terapeutici con duplice attenzione, cognitiva e corporea, che si sono consolidati in alcune pratiche terapeutiche come la mindfulness, l'EMDR,  ecc.


Gli strumenti utilizzati da un lato coinvolgono le dimensioni corporee, dall'altro sollecitano l'attenzione ai processi di pensiero che l'accompagnano così da produrre un'attenzione orientata maggiormente alla forma piuttosto che ai contenuti.
Tale atteggiamento, di osservazione dell'attività cognitiva, condurrebbe all'esperienza di un distacco dai contenuti e, quindi, a una disidentificazione dal vissuto corrispondente.

Questo modo di considerare i processi mentali e corporei, che distingue la forma dai contenuti e al modo di comporre e produrre i pensieri separandoli dal loro senso e significato, è probabile che funzioni per tutti i disturbi psicologici, e quindi non solo per quelli depressivi, perché ogni disturbo si accompagna anche ad una ricorsività di pensiero che potrebbe dipendere proprio dalla forma assunta.

Le terapie cognitive che oggi si sono esposte nell'utilizzo di aspetti legati ad agiti corporei si può dire che, in qualche modo, suggeriscano una convergenza verso un'apparente unificazione organismica.
Apparente perché, pur recuperando ai processi mentali qualche aspetto corporeo, di fatto questi ultimi continuano ad essere usati in maniera strumentale e solo per meglio individuare i processi cognitivi che si realizzano contemporaneamente e che, nell'idea cognitiva, non sono necessariamente ad essi corrispondenti.

In queste teorizzazioni manca l'idea dell'identità funzionale in cui: "... gli atteggiamenti muscolari e caratteriali nell'ingranaggio psichico hanno la stessa funzione; possono influenzarsi reciprocamente e sostituirsi vicendevolmente. In fondo sono inseparabili e nella loro funzione sono identici." (Reich, 1927, "La funzione dell'orgasmo").
Dal punto di vista reichiano il carattere è espressione anche di un aspetto cognitivo per cui, il modo di pensare e ciò che si pensa, sono coerentemente espressi nell'articolarsi degli atteggiamenti muscolari che modulano la relazione.



In psicologia i processi corporei sono sempre sembrati appartenere ad un livello organismico inferiore. Nelle diverse considerazioni accademiche, ma anche nelle semplici espressioni verbali, le diverse materie fisiologiche sono sempre state rigorosamente accostate agli aspetti anatomo funzionali e forse ciò ha contribuito a emarginare le diverse terapie corporee che si sono vissute in un ruolo ancellare rispetto sia a quelle cognitive sia psicoanalitiche.
In questa subalternità hanno rischiato di non riuscire a sostenere un ruolo specifico e definito nell'individuazione di elementi formali e concreti per intervenire sull'organismo complessivo. Infatti, anche quando gli strumenti terapeutici utilizzati si sono mostrati solidi e coerenti, come nella Psicoterapia Sensomotoria, la Psicomotricità Relazionale, la Bioenergetica, la Vegetoterapia, le Artiterapaie, ecc., è stato sempre con difficoltà che questi indirizzi si sono affermati e riscattati.
Questa specie di oscurantismo ha consentito che, gli stessi strumenti usati normalmente da queste scuole, e che non hanno mai suscitato grande interesse applicativo, oggi che sono usati in ambito cognitivo sono maggiormente riconosciuti come strumenti validi. Come per esempio gli acting oculari usati in Vegetoterapia.

La Vegetoterapia ha sempre perseguito una visione complessiva dell'organismo umano spesso anche prendendo implicitamente le distanze dalle classiche definizioni psicoanalitiche.
I meccanismi di difesa, il transfert e il controtransfert, il concetto dell'Io e del Sé, la relazione oggettuale, l'oggetto della relazione, lo schematismo della fasi evolutive, ecc, piuttosto che oggetti del pensiero, diventano processi di pensiero che, non necessariamente vincolati ai contenuti, da cui le interpretazioni psicoanalitiche, diventano forme corporee organizzate in comportamenti agiti e auto-interpretabili con l'utilizzo dei corrispondenti agiti relazionali (corporei).

Interessante da questo punto di vista, e in relazione al preambolo iniziale di questo articolo, è il fatto che tutte le terapie corporee, nell'utilizzo pratico delle proprie tecniche, hanno da sempre previsto, almeno implicitamente se non previsto dal paradigma di riferimento, di promuovere una maggiore attenzione al corpo, e alle sue forme esecutive ed espressive, alimentando una graduale distanza dai processi di pensiero. E in alcune esperienze vegetoterapeutiche tale intento è ancora più evidente.


Un esempio emblematico può essere il lavoro relativo all'interpretazione dei sogni con l'ausilio di un acting di vegetoterapia.

In tale contesto i movimenti oculari vengono usati come pretesti per dirottare l'impegno attentivo consapevole sul controllo oculare, così da lasciare i processi cognitivi liberi di realizzarsi senza l'attenzione consapevole e direttiva dell'Io.
Le persone sottoposti a questo tipo di esperienza, impegnati a tenere gli occhi fissi su un punto in movimento davanti ai loro occhi, sperimentano una disidentificazione dai processi mentali impegnati nell'elaborazione delle immagini del sogno che sono scelte preliminarmente per l'esperienza. In questo modo si realizza un processo mentale automatico e inconscio, nel senso di non preventivato nè controllato, che è sorprendentemente imprevedibile e spesso chiarificatore delle tematiche espresse metaforicamente.
Ma, ancora più interessante, si realizza anche una sorta di piacere nei confronti del processo di elaborazione delle proprie immagini, differente e indipendente dal sentimento che viene vissuto nei confronti dell'operatore che propone l'esperienza. Una sorta di transfert nei confronti dei propri prodotti di pensiero, che siano immagini fantastiche o costruzioni pindariche o giochi di forma e architetture logiche, si ravviva la fiducia di sé, nella propria creatività e nella capacità di coglierla nei suoi elementi processuali e di forma.

In realtà ogni acting, implicando l'attenzione all'esecuzione di un movimento specifico, presuppone un distanziamento dal processo di pensiero che l'accompagna il quale, a sua volta, si presta ad una autonoma rielaborazione.











Giuseppe Ciardiello